Io ho quel che ho donato. Questa, tra gli
innumerevoli motti dannunziani, è la frase che più profondamente ed
essenzialmente racchiude tutte le sensazioni e le suggestioni che hanno
caratterizzato la mia esperienza nel corso della ‘Missione Solidale Kosovo
2014’. E’ su questa linea che si concretizza, infatti, l’operato di Sol.Id.; e
nel nome stesso di solidarietà ed identità che si racchiudono quindi le nostre
azioni, tese in sostegno di chi vuole difendere e tutelare la propria storia,
le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria terra.
Dopo una breve tappa a Belgrado ci siamo
diretti alla volta delle enclavi serbe nella regione di Kosovo e Metochia, in
supporto quindi di chi è diventato un ‘ospite in casa propria’. Per i più, la
soluzione migliore sarebbe stata abbandonare la propria terra, e quindi le
proprie radici, ed emigrare, per la possibilità di una vita più semplice ed
agiata, ma al prezzo di cosa? Del piegarsi alla volontà di chi impone qualcosa
di inaccettabile? I Serbi non possono rinunciare al Kosovo e Metochia perché
queste sono il centro storico della statualità e della spiritualità serbe. Il
punto cardine dei serbi è la promessa solenne del Kosovo o il mito del Kosovo
come strumenti del ricordo della famosa battaglia della Piana dei Merli, a
Kosovo Pojli, a nord di Pristina, dove nel 1389 i Serbi affrontarono i turchi.
Il sacrifico dei loro militari e dell’élite politica, ricordato e tramandato
dalle generazioni, rappresenta quindi il motivo primo dell’attaccamento a
quella terra. Un legame che quindi sovrasta incontrastato con la possibilità di
una vita più facile. E’ con queste premesse che si percepisce la gratitudine
nei nostri confronti; nei confronti di giovani ragazzi e ragazze, partiti come
volontari da vari Paesi europei per arrivare fino alle loro case a sostenere
concretamente chi, nel modo più dignitoso possibile, non chiede altro se non il
diritto di continuare a vivere nella terra in cui sono presenti da secoli.
Ospitati presso le famiglie dell’enclave di
Velica Hoca, l’accoglienza ricevuta è stata assolutamente commovente. La
riconoscenza nei nostri confronti è stata tale da essere trattati come parte
integrante della famiglia, della Comunità. Passavano quindi in secondo piano
piccoli disagi come magari il lavarsi con l’acqua fredda, o arrivare alle case
nel buio più totale per la mancanza di luce nelle piccole stradine del
villaggio. Una comunità di nemmeno 600 anime, quella di Velica Hoca, costretta
a vivere quasi interamente all’interno della stessa, contornati infatti da un
territorio a maggioranza albanese. Assolutamente toccante il monumento presente
nel villaggio con un centinaio di nomi, dedicato a quegli uomini, tutti di
etnia serba, rapiti dopo la guerra del 1999, i cui corpi furono trovati
svuotati degli organi, destinati al traffico clandestino (è di questi giorni la
notizia dell’apertura di una nuova inchiesta dell’UE sul sospetto di traffico
d’organi umani in cui sarebbero stati implicati a fine anni ’90 alcuni capi
della guerriglia albanese kosovara dell’Uck).
La
nostra missione solidale si è concretizzata alla scuola serba di Sharski Odred,
che si trova nel piccolo villaggio di Sevce, parte integrante del distretto di
Shtcpce, dove abbiamo consegnato i materiali comprati grazie alla raccolta
fondi lanciata mesi prima. Sensazioni indescrivibili al nostro arrivo, dove
siamo stati quasi assaliti da una miriadi di studenti della scuola elementare e
media, urlanti e trepidanti per la comparsa di ‘personaggi venuti da chissà
dove’. Anche loro a mostrarci i disegni, i loro lavoretti, le loro classi ci
hanno accolto con tutto l’entusiasmo possibile, coinvolgendoci nella
spensieratezza della loro vita quotidiana, troppo piccoli forse per capire e
comprendere ciò che è stato, ciò che purtroppo hanno dovuto subire, in tempi
nemmeno troppo lontani, chi come loro è nato serbo. Quando avevo più o meno la
loro età, non ancora in grado di capire ciò che stava accadendo, ascoltando
distrattamente i telegiornali si parlava di una guerra necessaria per difendere
un popolo, quello albanese sopraffatto da un dittatore sanguinario. A nulla
quindi valsero le norme di diritto internazionale, della non ingerenza negli
affari interni di uno Stato; un coinvolgimento delle forze internazionali che
vide tra gli altri anche il nostro Paese, sottomesso (come sempre) agli
interessi di qualcuno di ‘più grande’. I bombardamenti su Serbia e Kosovo,
durati settantotto giorni, avallarono i voleri dei soliti noti: gli
‘esportatori della democrazia’, i ‘paladini della giustizia’.
L’esempio più lampante di questo è la città di
Pristina, vera e propria colonia americana; dove la comunità serba è
praticamente scomparsa. Sulla Bill Clinton Boulevard si erge una statua
del Presidente stesso e di fronte a questa una targa con su scritto “All I want
for you is a good future and I will do everything I can to support it for the
rest of my life”: raccapricciante. Situazione diversa invece a
Mitrovica, la Belfast dei Balcani: la città che è l’emblema delle enormi
contraddizioni del Kosovo. Spezzata in due da tempo, le tensioni e i conflitti,
esistenti da prima della guerra del '99, si sono trasformati in una diffidenza
insanabile: il ponte di Austelitz, sul fiume Ibar, è il simbolo di questa
divisione che separa la parte nord abitata quasi esclusivamente dagli identitari
e consapevolio serbi, dalla parte sud popolata dagli albanesi, che vivono nella
quasi incosciente credenza di sentirsi liberi, cosa in realtà poco veritiera
trovandosi di fatto sotto la bandiera a stelle e strisce. Dal ponte, fino allo
scorso anno non percorribile per il cumulo di macerie posto sopra di esso, si
vedono sventolare fiere le bandiere con l’aquila bicipite con iscritta la croce
serba. Ovunque, nella zona nord, simboli e murales contro la Nato e contro
l’UE, quest’ultima responsabile del comportamento non più protettivo e di
sostentamento del governo di Belgrado, nei confronti dei serbi kosovari: si
prevede l’entrata, nel 2022 della Serbia nell’Unione Europea, per cui non
sarebbe tollerabile da Bruxelles una politica di supporto nei confronti di chi
non vuole accettare la proclamazione di indipendenza del Kosovo del 17 febbraio
del 2008.
Risulta quindi chiaro ed evidente il perché
dell’ospitalità che abbiamo ricevuto dai serbi praticamente in tutto il Kosovo,
passando dalle famiglie nelle enclavi al Monastero di Decani: con la nostra
azione e presenza è chiara la fermezza nel non volerli lasciare soli, ma di
fare il possibile, anche nel nostro piccolo, per sostenere chi continua a
lottare per salvaguardare la propria identità e la propria terra. Quello ai
Balcani non è stato un addio, ma sicuramente un arrivederci.