martedì 20 gennaio 2015

Io ho quel che ho donato. Il Mio Viaggio in Kosovo




Io ho quel che ho donato. Questa, tra gli innumerevoli motti dannunziani, è la frase che più profondamente ed essenzialmente racchiude tutte le sensazioni e le suggestioni che hanno caratterizzato la mia esperienza nel corso della ‘Missione Solidale Kosovo 2014’. E’ su questa linea che si concretizza, infatti, l’operato di Sol.Id.; e nel nome stesso di solidarietà ed identità che si racchiudono quindi le nostre azioni, tese in sostegno di chi vuole difendere e tutelare la propria storia, le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria terra.

Dopo una breve tappa a Belgrado ci siamo diretti alla volta delle enclavi serbe nella regione di Kosovo e Metochia, in supporto quindi di chi è diventato un ‘ospite in casa propria’. Per i più, la soluzione migliore sarebbe stata abbandonare la propria terra, e quindi le proprie radici, ed emigrare, per la possibilità di una vita più semplice ed agiata, ma al prezzo di cosa? Del piegarsi alla volontà di chi impone qualcosa di inaccettabile? I Serbi non possono rinunciare al Kosovo e Metochia perché queste sono il centro storico della statualità e della spiritualità serbe. Il punto cardine dei serbi è la promessa solenne del Kosovo o il mito del Kosovo come strumenti del ricordo della famosa battaglia della Piana dei Merli, a Kosovo Pojli, a nord di Pristina, dove nel 1389 i Serbi affrontarono i turchi. Il sacrifico dei loro militari e dell’élite politica, ricordato e tramandato dalle generazioni, rappresenta quindi il motivo primo dell’attaccamento a quella terra. Un legame che quindi sovrasta incontrastato con la possibilità di una vita più facile. E’ con queste premesse che si percepisce la gratitudine nei nostri confronti; nei confronti di giovani ragazzi e ragazze, partiti come volontari da vari Paesi europei per arrivare fino alle loro case a sostenere concretamente chi, nel modo più dignitoso possibile, non chiede altro se non il diritto di continuare a vivere nella terra in cui sono presenti da secoli.

Ospitati presso le famiglie dell’enclave di Velica Hoca, l’accoglienza ricevuta è stata assolutamente commovente. La riconoscenza nei nostri confronti è stata tale da essere trattati come parte integrante della famiglia, della Comunità. Passavano quindi in secondo piano piccoli disagi come magari il lavarsi con l’acqua fredda, o arrivare alle case nel buio più totale per la mancanza di luce nelle piccole stradine del villaggio. Una comunità di nemmeno 600 anime, quella di Velica Hoca, costretta a vivere quasi interamente all’interno della stessa, contornati infatti da un territorio a maggioranza albanese. Assolutamente toccante il monumento presente nel villaggio con un centinaio di nomi, dedicato a quegli uomini, tutti di etnia serba, rapiti dopo la guerra del 1999, i cui corpi furono trovati svuotati degli organi, destinati al traffico clandestino (è di questi giorni la notizia dell’apertura di una nuova inchiesta dell’UE sul sospetto di traffico d’organi umani in cui sarebbero stati implicati a fine anni ’90 alcuni capi della guerriglia albanese kosovara dell’Uck).

 La nostra missione solidale si è concretizzata alla scuola serba di Sharski Odred, che si trova nel piccolo villaggio di Sevce, parte integrante del distretto di Shtcpce, dove abbiamo consegnato i materiali comprati grazie alla raccolta fondi lanciata mesi prima. Sensazioni indescrivibili al nostro arrivo, dove siamo stati quasi assaliti da una miriadi di studenti della scuola elementare e media, urlanti e trepidanti per la comparsa di ‘personaggi venuti da chissà dove’. Anche loro a mostrarci i disegni, i loro lavoretti, le loro classi ci hanno accolto con tutto l’entusiasmo possibile, coinvolgendoci nella spensieratezza della loro vita quotidiana, troppo piccoli forse per capire e comprendere ciò che è stato, ciò che purtroppo hanno dovuto subire, in tempi nemmeno troppo lontani, chi come loro è nato serbo. Quando avevo più o meno la loro età, non ancora in grado di capire ciò che stava accadendo, ascoltando distrattamente i telegiornali si parlava di una guerra necessaria per difendere un popolo, quello albanese sopraffatto da un dittatore sanguinario. A nulla quindi valsero le norme di diritto internazionale, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato; un coinvolgimento delle forze internazionali che vide tra gli altri anche il nostro Paese, sottomesso (come sempre) agli interessi di qualcuno di ‘più grande’. I bombardamenti su Serbia e Kosovo, durati settantotto giorni, avallarono i voleri dei soliti noti: gli ‘esportatori della democrazia’, i ‘paladini della giustizia’.


 L’esempio più lampante di questo è la città di Pristina, vera e propria colonia americana; dove la comunità serba è praticamente scomparsa. Sulla Bill Clinton Boulevard si erge una statua del Presidente stesso e di fronte a questa una targa con su scritto “All I want for you is a good future and I will do everything I can to support it for the rest of my life”: raccapricciante. Situazione diversa invece a Mitrovica, la Belfast dei Balcani: la città che è l’emblema delle enormi contraddizioni del Kosovo. Spezzata in due da tempo, le tensioni e i conflitti, esistenti da prima della guerra del '99, si sono trasformati in una diffidenza insanabile: il ponte di Austelitz, sul fiume Ibar, è il simbolo di questa divisione che separa la parte nord abitata quasi esclusivamente dagli identitari e consapevolio serbi, dalla parte sud popolata dagli albanesi, che vivono nella quasi incosciente credenza di sentirsi liberi, cosa in realtà poco veritiera trovandosi di fatto sotto la bandiera a stelle e strisce. Dal ponte, fino allo scorso anno non percorribile per il cumulo di macerie posto sopra di esso, si vedono sventolare fiere le bandiere con l’aquila bicipite con iscritta la croce serba. Ovunque, nella zona nord, simboli e murales contro la Nato e contro l’UE, quest’ultima responsabile del comportamento non più protettivo e di sostentamento del governo di Belgrado, nei confronti dei serbi kosovari: si prevede l’entrata, nel 2022 della Serbia nell’Unione Europea, per cui non sarebbe tollerabile da Bruxelles una politica di supporto nei confronti di chi non vuole accettare la proclamazione di indipendenza del Kosovo del 17 febbraio del 2008.
 
Risulta quindi chiaro ed evidente il perché dell’ospitalità che abbiamo ricevuto dai serbi praticamente in tutto il Kosovo, passando dalle famiglie nelle enclavi al Monastero di Decani: con la nostra azione e presenza è chiara la fermezza nel non volerli lasciare soli, ma di fare il possibile, anche nel nostro piccolo, per sostenere chi continua a lottare per salvaguardare la propria identità e la propria terra. Quello ai Balcani non è stato un addio, ma sicuramente un arrivederci.