martedì 28 aprile 2015

Drammatici Esempi di Delocalizzazione

Con il termine delocalizzazione ,si intende lo spostamento delle attività produttive dal paese di origine ad uno estero. I motivi per cui le imprese delocalizzano sono molteplici,come ad esempio la pressione tributaria, l’elevato costo del lavoro e per la burocrazia (nota in Italia per essere a dir poco asfissiante). Secondo delle analisi ISTAT, circa 3000 delle grandi e medie imprese (ossia il 13,4%), con più di 50 impiegati,nel periodo che va dal 2001 al 2006, , hanno spostato le loro sedi in altre Nazioni europee, in Cina, negli USA, in India ed in Africa centro-meridionale.
 
Ma come funziona la delocalizzazione? Il maggior numero delle aziende che aderiscono a questo fenomeno, attuano il modello della “PRINCIPAL STRUCTURE”.Il seguente metodo consiste nel spostare la sede operativa in giro per il mondo con una manodopera low cost e la holding , ossia la società capogruppo,che controlla le altre società mediante il possesso di partecipazioni azionarie, in un paese dove le tasse sono decisamente limitate. Il ruolo della holding è quello di vendere i materiali comprati alle sedi operative a prezzi elevati,facendo diminuire il profitto di quest’ultime, spendendo così una cifra irrisoria in tasse. Indovinate invece dove si accumulano i profitti? Nelle holding, posizionate esattamente per questo motivo in località dove la pressione tributaria è minima.
 
Di aziende italiane che hanno deciso di abbracciare questo metodo, ce ne sono molte, ma quella che ci salta più all’occhio, per fama e per gli effetti disastrosi recati al nostro paese, è la FIAT. L’industria “torinese” ha spostato gran parte delle sue sedi dall’Italia agli Stati Uniti, ma soprattutto in Serbia. ha ridotto di 15821 il numero di dipendenti dal 2007 al 2012 ,mentre negli USA ne ha assunti 62349,passando gli stabili da 56 a 44 in Italia e da 22 a 48 negli Stati Uniti. Il paese serbo è diventato la sede di una delle principali centrali operative della FIAT, per i costi della manodopera decisamente bassi. L’ effetto di questa delocalizzazione ha avuto importanti ripercussioni sull’export serbo che, nel settore dell’auto, è trainato da Fiat che contribuisce al 20% delle esportazioni e ha ”quasi triplicato la produzione” nei primi tre mesi del 2013 rispetto allo stesso periodo del 2012. Questa fiorente positività imprenditoriale, è anche conseguenza di sfruttamenti di FIAT nei confronti dei lavoratori serbi, al punto che, un operaio dello stabilimento di Kragujevac, come azione di protesta, ha danneggiato 31 vetture (500L),scrivendo sulle carrozzerie “italiani andatevene” o “aumentate gli stipendi”, causando danni per 500 000 euro. Un palese episodio estremo di protesta nato dall’esasperazione di operai che arrivano a guadagnare soli trecentoventi euro al mese. Ma i vantaggi di trasferire stabilimenti operativi in serbia, non riguardano solo la differenza del costo di manodopera in confronto all’italia. Infatti, grazie ad un accordo stipulato dal governo di Belgrado e dal Lingotto, lo stato paga la bonifica dell’ex Zavasta (un importante stabilimento)e ne cede la proprietà a FIAT. Oltre a ciò, tramite l’accordo, industria automobilistica, riceve 10 000 euro di finanziamento pubblico, per dipendente assunto. Infine, come se i guadagni non fossero abbastanza, la FIAT non dovrà pagare tasse né al governo, né al comune di Kragujevac per ben 10 anni.
 
“La delocalizzazione è un male necessario imposto dal mercato. L’impresa del domani sarà quella intelligente:qui in Italia, la creatività, l’organizzazione della produzione ed il marketing; fuori, dove la manodopera costa meno, la produzione”.Queste sono le parole del patrono della Geox, Moretti Polegato, l’azienda di Treviso, che produce capi d’abbigliamento. Nel 2008 ha fatturato 892,5 milioni di euro, collocandosi prima in Italia e seconda nel mondo per numero di prodotti in commercio. In seguito alle parole sono, prontamente, arrivati i fatti. Così la Geox sposta la principale produzione in stabilimenti a Timisoara, in Romania e in Slovacchia. Infatti è proprio in Romania che la geox ha costruito una catena di produzione, attiva 24 ore su 24 con operai distribuiti in 3 turni di 8 ore. Qui avviene il 20% della produzione Geox. Naturalmente, se la produzione in Romania va a gonfie vele, in Italia va a scemare visti i costi più elevati, così sulla strada del licenziamento ci sono 90 dipendenti su 545dello stabilimento madre di Montebelluna.
 
Se per le grandi società la delocalizzazione è una strategia per aumentare esponenzialmente i profitti, per la classe lavoratrice diventa un mezzo infame per essere ingiustamente licenziata(situazione soprattutto italiana), o sfruttata e destinata ad avere salari minimi, senza prospettiva di crescita (situazione soprattutto estera). Un altro effetto devastante dello spostamento delle aziende italiane in terre estere, è, chiaramente, la perdita di potenza industriale dell’Italia, con forti ripercussioni sull’economia italiana

mercoledì 22 aprile 2015

Intervista sulla delocalizzazione ai professori Umberto Triulzi e Pasquale Lucio Scandizzo, docenti di Politica Economica presso le università di Roma de” La Sapienza” e di “Tor Vergata”

Con lo scopo di spiegare meglio il fenomeno delle delocalizzazioni  attraverso il pensiero di voci autorevoli e specializzate in materia, abbiamo contatto qualche settimana fa due docenti di Politica Economica di due diversi atenei romani, il Professor  Umberto Triulzi, ordinario presso l’Università di Roma “La Sapienza”  e il Professor Pasquale Lucio Scandizzo, ordinario presso l’Università di Roma “Tor Vergata”. Fin da subito, si sono dimostrati molto disponibili  nel rispondere ai nostri quesiti e speranzosi nel fatto che l’intervista  possa aiutare a spiegare, a noi e a  i nostri lettori, oltre il fenomeno delle delocalizzazioni, soprattutto le politiche economiche più adatte a migliorare la competitività e a rilanciare la crescita nel nostro paese. E già dalla premessa all’intervista, vogliamo rinnovare i nostri ringraziamenti per l’esaustività delle risposte che ci hanno fornito. Di seguito l’intervista integrale ai due docenti di Politica Economica:
 


 
-    Salve professore. Cominciamo subito l’intervista. Dunque: Per quale motivo le delocalizzazioni si sono moltiplicate negli ultimi anni? 


P.L.S. : Probabilmente è l’effetto della  crisi e di una ristrutturazione industriale in parte determinata anche dal deterioramento dell’ambiente istituzionale (burocrazia, corruzione , malavita organizzata)

U.T. :  Per diverse ragioni. Principalmente per motivi economici, ad esempio la delocalizzazione di processi produttivi in Paesi a più basso costo del lavoro (Cina) o la produzione di servizi che richiedono know-how e la disponibilità di lavoro più qualificato (come nel caso dei call center in India). Ma possono esserci anche ragioni connesse alla presenza di materie prime, alla necessità di produrre in nuovi mercati di sbocco o in mercati più efficienti  e meno “regolamentati” rispetto al mercato nazionale o semplicemente perché “fiscalmente” più attraenti, cioè con politiche di attrazione degli investimenti diretti più vantaggiose per le imprese estere.

- Le aziende delocalizzano davvero solo se chiudono il bilancio in passivo? O meglio, c'è sempre una crisi economica alla base della delocalizzazione o c'è anche solo la voglia di aumentare i profitti? 

 
 P.L.S. : In genere c’è un business plan che promette  margini di profitto e/o tassi di crescita più elevati. 

 
U.T. :  Inizialmente le cause di questo fenomeno sono state attribuite alla necessità per le imprese in difficoltà di ridurre drasticamente i costi di produzione, in particolare quelli del lavoro, spostando parte della produzione in mercati caratterizzati da abbondanza di lavoro e bassi salari. In realtà hanno influito sui processi di delocalizzazione delle imprese anche altre motivazioni dovute alle profonde trasformazioni che hanno interessato negli ultimi venti anni il commercio globale, all’innovazione tecnologica, alla diffusione di sistemi avanzati di ITC, all’emergere di nuovi competitors a livello internazionale. 
 
-Cosa hanno fatto i governi nazionali o dell'Unione Europea negli ultimi anni per arginare il fenomeno? E cosa dovrebbero fare in futuro, secondo lei? 



P.L.S. :  Dovrebbero cercare di migliorare il business climate e l’ambiente economico, soprattutto nei Paesi e nelle regioni più deboli.

U.T. :  Dal momento che viviamo, sia in Europa che a livello globale, in mercati fortemente liberalizzati e dove la competitività e la specializzazione hanno un ruolo decisivo nell’affermazione delle strategie vincenti delle imprese produttive, non credo che possiamo fare molto per rallentare questo processo. O meglio, possiamo fare molto ma per aiutare le imprese più fragili, penso sopratutto alle piccole e medio imprese del nostro paese che hanno prodotti di qualità, ad essere più competitive e quindi ad affacciarsi con maggiore forza e capacità sui mercati internazionali. Se le imprese restano chiuse e dipendenti solo dal mercato domestico sarà difficile sopravvivere e questo riguarda le PMI italiane come quelle dei paesi partner dell’UE. Come ? Ad esempio, introducendo politiche che aiutino le imprese del made in Italy a disporre di strumenti e aiuti fiscali e finanziari in grado di valorizzare i loro prodotti, di rafforzare la formazione di personale qualificato nelle aziende, di avvicinare non episodicamente ma in modo strutturato i giovani diplomati e laureati al mondo del lavoro. Il settore pubblico ha una grande responsabilità nell’attuare le riforme necessarie a ridare competitività al sistema Italia ma le imprese, se vogliono essere più competitive, devono fare la loro parte
-Le Normative  comunitarie favoriscono e semplificano le delocalizzazioni?  
P.L.S. :  Mano a mano che l’integrazione economica e finanziaria procede,  nello spazio Europeo ci si muove con più facilità , mentre le normative europee hanno a mio avviso scarso effetto sulle delocalizzazioni fuori dell’Europa.



U.T. :  Il mercato interno europeo è la più grande realtà economica al mondo, un mercato fatto di 500 milioni di consumatori che vivono in gran parte le stesse regole. L’Europa può restare competitiva se valorizza meglio questa grande ricchezza che ha costruito nel tempo, facilitando gli scambi e la mobilità delle imprese e delle persone non solo all’interno dell’area ma anche costruendo rapporti con paesi esterni all’UE che salvaguardino le tipicità delle produzioni europee ma anche le regole che sono state introdotte per garantire l’unicità del mercato europeo. Oggi, se vogliamo vincere la sfida globale, dobbiamo chiedere all’UE di avere una politica industriale e dell’ambiente più coraggiosa ed una politica fiscale e di bilancio che non penalizzi i paesi più indebitati. Solo se aumentiamo le ragioni e i vantaggi per restare ad operare in Europa, quindi se rendiamo il mercato unico ancora più efficiente, possiamo circoscrivere il fenomeno ed attrarre, al tempo stesso, nuovi investimenti produttivi dall’estero. Altre soluzioni, magari più a carattere  protezionistico, non appaioni perseguibili.

-Secondo Lei è possibile uscire dalla crisi economica senza reindustrializzare il nostro paese? O Basta solo snellire e rendere più flessibile il mondo del lavoro come vogliono farci credere?
P.L.S. :  Sarebbe necessaria una politica economica con una “vision” del futuro del nostro paese, della sua possibile ri-specializzazione settoriale, del ruolo dell’industria e del vantaggio comparato delle nostre imprese. Dovrebbe trattarsi di una politica dei “fattori”, volta a rimuovere le distorsioni dai mercati del lavoro e del capitale, ma anche dei “settori”, mirata all’efficienza e alla liberalizzazione, soprattutto dei servizi.


U.T. :  No, non è possibile. Bisogna però intendersi su cosa significa “reindustrializzazione”.
Assistiamo, infatti, anche a fenomeni che chiamiamo di back-shoring, cioè al rientro di fasi produttive che le imprese avevano delocalizzato all’estero nell’intento di non disperdere il patrimonio di competenze e know-how che esse hanno e che non è facile ricostituire una volta esportato in altri paesi. Non possiamo fare a meno dell’apporto dell’industria alla crescita economica del nostro paese, ma dobbiamo intervenire con più decisione per premiare le imprese che innovano, che valorizzano il capitale umano ma che necessitano di una diversa organizzazione produttiva e di capacità finanziarie e gestionali più avanzate. A mio avviso il costo del lavoro è solo una parte del problema, le nostre imprese potrebbero essere più competitive se introducessero, anche attraverso politiche economiche ispirate all’erogazione di servizi pubblici e sociali più efficienti, le innovazioni di cui abbiamo parlato (in ambito tecnologico, finanziario e nella formazione del capitale umano). 



-Come valuta la proposta politica di nazionalizzare i settori strategici italiani (Energia, Trasporti, Comunicazioni)? è un'ipotesi fattibile?  
 
P.L.S. :  Non mi pare una politica sostenibile. Ci abbiamo provato nel passato  noi, come anche altri paesi, e i costi sono stati maggiori dei benefici. L’amministrazione pubblica non è in grado di gestire le industrie, sia per la sua composizione interna , sia per i metodi di selezione, sia per la natura degli incentivi che può utilizzare. 
 
U.T. : Non è un’ipotesi fattibile. Il mercato unico europeo è stato costruito attraverso un legislazione europea che ha di fatto abolito i monopoli nazionali e ridotto il peso dell’intervento pubblico in moltissimi attività produttive e nei servizi. La vera sfida è aiutare i settori strategici a restare tali predisponendo azioni di sostegno adeguate, creando nuove opportunità di investimento nei settori più innovativi, ricercando una maggiore cooperazione tra le grandi imprese europee, definendo strategie comuni di approvvigionamento delle materie prime, realizzando reti di trasporto che riducano le distanze tra le regioni periferiche e le regioni del centro Europa.  
 
La ringrazio a nome di tutta la redazione, professore, per la cordialità e la professionalità dimostrata in questa intervista. Restiamo comunque dell’idea che solo un intervento statale nei settori strategici possa migliorare le condizioni industriali del nostro paese. Libera iniziativa privata economica ma sempre con il controllo, la regolazione e l’intervento cautelativo pubblico Speriamo, comunque, per il nostro paese e per i nostri giovani, in un futuro non molto lontano, di ripetere l’intervista, ma con condizioni industriali migliori.. A presto e Buon Lavoro.




 






martedì 21 aprile 2015

Breve storia delle delocalizzazioni

C'era una volta in cui ci si poteva sentire orgogliosi di essere Italiani. Un tempo in cui chi ci governava rendeva grande il nostro Paese attuando politiche popolari e nazionali. Un tempo in cui l’industria veniva tutelata e incoraggiata. Oggi, invece, è tutto cambiato. Molti  abbandonano la nave e se ne vanno dove il vento tira più forte. Del nostro Paese sta rimanendo solo il nome, la sostanza se ne va altrove. Il motore pulsante del nostro Paese,l'industria, migra verso mete più ambiziose, si sposta verso lidi migliori, in cui produrre risulta essere più vantaggioso. Stiamo perdendo i pezzi.

Ma quando ha inizio questa storia della delocalizzazione? Sicuramente non è un argomento recente ,seppure negli ultimi anni è incrementato. Circa un secolo fa avevamo già qualche teoria che riguardava questo possibile cambiamento in ambito produttivo. Due economisti svedesi idearono il teorema di Heckscher-Ohlin,che da loro prende il nome. Tale teorema afferma in sostanza che l'interscambio produttivo tra due paesi può avere enormi benefici. Non è esattamente il concetto vero e proprio di delocalizzazione ma sicuramente siamo alla base di quello che vediamo oggi. Ma i veri capostipiti della delocalizzazione furono gli Stati Uniti a partire dagli anni sessanta. L'Italia entra in scena negli anni ottanta quando le imprese italiane commerciavano con i paesi più ricchi con lo scopo di conquistare quote di mercato. L'entrata nella moneta unica ha fatto emergere la debolezza del cambio della nostra moneta. La sovranità monetaria favoriva notevolmente l'andamento dell'industria italiana ma ecco che l'Italia inizia a delocalizzare,e se all'inizio l'obiettivo era di tipo commerciale,ora interessa il processo produttivo vero e proprio.


Oggi grazie a questo processo assistiamo alla completa distruzione dell'industria nazionale,le nostre aziende stanno scomparendo fisicamente dal suolo italiano. Perchè avviene tutto questo? Perchè grandi e piccole aziende trasferiscono la loro produzione in altri paesi? Sicuramente uno dei motivi più importanti è che il costo del lavoro all'estero è più basso rispetto al nostro,si parla del 75% in meno. Ciò sta ad indicare che un lavoratore all'estero viene pagato meno per svolgere lo stesso lavoro rispetto ad un dipendente italiano (seppur con meno qualità).. Ecco come è aumentata la disoccupazione in Italia. Questo insieme comunque ad altre cause, come: l’eccessiva regolamentazione dei mercati, la pesante burocrazia, il fisco che soffia sempre sul collo degli imprenditori e la qualità non sempre buona delle istituzioni sono in apparenza le cause di uno spostamento produttivo all'estero. Spesso non si tiene in considerazione il fatto che i paesi che "accolgono" le nostre industrie offrono un'incentivazione pubblica maggiore alla nostra. Un esempio emblematico è stato la Serbia nel 2008 che con un decreto ha stanziato un fondo per l'erogazione di finanziamenti ad imprese che vogliono produrre sul suo territorio.

Ma cosa significa spostare la produzione all'estero? Diciamo che non tutto il ciclo produttivo viene trasferito. Nella maggior parte di casi si preferisce spostare solo le attività operative e si spinge per mantenere in casa nostra tutto ciò che riguarda il controllo del ciclo produttivo come la progettazione, la distribuzione e il marketing. Si vuole mantenere il cuore in terra nostrana e spostare solo il lavoro fisico perchè tanto questo tipo di lavoro lo possono fare tutti e in egual modo e ovviamente con un costo minore. L'operaio italiano è quindi merce.

Ma dove vanno a produrre quindi le nostre aziende? Est Europa,Cina e sud America rappresentano le soluzioni migliori, anche a causa dell’ assenza di regolamentazione sul mercato del lavoro. Infatti questi paesi destinatari in molti casi hanno infrastrutture di base non ancora bene sviluppate e hanno molto meno peso fiscale. Questo favorisce la concorrenza di questi paesi che si propongono come nuovi poli di attrattiva industriale.
Sebbene la storia della delocalizzazione è iniziata,come abbiamo scritto,circa un secolo fa è negli anni ottanta e novanta che inizia davvero a prendere piede e in Italia esplode definitivamente all'inizio di questo secolo,dove l'istat calcola che circa il 10% delle industrie italiane con almeno cinquanta dipendenti ha trasferito all'estero parte della produzione nostrana. Assistiamo oggigiorno alla perdita di migliaia di lavoratori che operano nei call center nel settore delle telecomunicazioni. Se prima era un lavoro facile da trovare,oggi ci troviamo davanti ad una difficoltà enorme nel provare ad inserirsi in queste aziende. Ma le società dei call center sono solo alcune delle aziende che hanno deciso di abbandonare la nostra nazione. Fiat, la nostra azienda leader nel settore automobilistico ha aperto stabilimenti in Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina con conseguente perdita di posti di lavoro per gli italiani. Dainese,Geox,Bialetti,Omsa,Benetton e molte altre completano il quadro in declino del nostro paese. Oggi quasi tutte le principali compagnie telefoniche hanno delocalizzato. Così facendo tutti i nostri dati iniziano a viaggiare oltre confine,copie di carte d'identità,codice fiscale e altri dati strettamente personali finiscono sui server di società di cui non sempre sappiamo molto. Altro che tutela della privacy.  Sembra un problema di secondo piano ma è pur sempre frutto di questa delocalizzazione.


Allora ci domandiamo,è possibile evitarla o almeno ridurla? Una soluzione dura sarebbe quella di multare le aziende che decidono di spostarsi all'estero. Però perchè arrivare a soluzioni punitive? Forse far restituire gli aiuti statali ricevuti precedentemente la delocalizzazione sarebbe una soluzione migliore? Domande a cui è difficile rispondere e che ci piacerebbe vengano affrontate più seriamente da chi ci governa. Ci siamo stufati di sentire di ennesime riforme del mercato del lavoro e di taglio del cuneo fiscale. La ripresa economica non passa attraverso queste misure appena elencate. All'Italia manca sicuramente l'innovazione, l'investimento su infrastrutture che ci fanno arrivare sempre in ritardo rispetto al resto dell'Europa. E il fenomeno della delocalizzazione aumenta sempre di più. Il tanto sbandierato "made in Italy" sembra ormai un lontano ricordo….

giovedì 16 aprile 2015

I drammatici effetti delle delocalizzazioni

Uno dei fenomeni che ha colpito maggiormente l’Italia negli ultimissimi anni è la cosiddetta “delocalizzazione”, un processo economico che vede l’organizzazione della produzione industriale completamente spostata in regioni o stati diversi da quello originario. In altre parole, ragionando non più sul mercato nazionale ma bensì su scala mondiale, le industrie decidono che alcune funzioni produttive possano essere totalmente delocalizzate in luoghi ritenuti più adatti e dove si possa realizzare quindi un profitto maggiore. La delocalizzazione di tipo internazionale, fra le tante, è la forma di questo fenomeno che altera maggiormente l’economia di un Paese.

I motivi che spingono le industrie a questa sorta di emigrazione sono quasi tutti riconducibili ad un discorso di convenienza economica. L’economicità è il fattore predominante, e lo si finalizza con la ricerca di Paesi in cui ci sia un concreto vantaggio comparato rispetto ad altri, vale a dire un insieme di regole, situazioni, usi e consuetudini che rendono quel tipo di lavoro meglio realizzabile lì piuttosto che altrove. Per esempio, una produzione in cui la parte focale sia costituita dalla mano d'opera rispetto al valore intrinseco delle merci in trasformazione, viene realizzata in un luogo in cui il costo del lavoro sia minimo, può essere il caso per esempio della Cina (uno dei paesi maggiormente in crescita a livello industriale e dove un operaio costa nettamente di meno piuttosto che in Italia). In secondo luogo ricordiamo poi che esistono alcuni incentivi alla delocalizzazione per ragioni di politiche economiche di sviluppo. Si hanno quindi i casi di delocalizzazione regionale, oppure quelli di una delocalizzazione internazionale. Attualmente il paese europeo in cui risulta più conveniente delocalizzare una produzione industriale per esempio è la Bulgaria, questo grazie a normative che annullano l'imposta sul reddito delle società che investono e la presenza di numerose zone franche per l'applicazione dell'IVA.

Come dicevamo all’inizio questo fenomeno di delocalizzazione ha colpito in misura notevole il nostro Paese, la nostra Italia, che tra le tante difficoltà che già affronta, tra la fuga di cervelli, la fuga di moneta, ora si trova ad affrontare anche la fuga delle imprese. Perché anche se la delocalizzazione può comportare aspetti positivi, va sottolineato che altrettanti, se non maggiori, sono gli effetti negative del fenomeno.
Innanzitutto partiamo dal presupposto che Il territorio che perde le produzioni subisce una contrazione massiccia dei lavoratori impiegati in quel settore, in altre parole c’è un notevole aumento della disoccupazione inevitabile.

Altro aspetto di cui tener conto è la perdita di controllo della qualità dei prodotti col conseguente aumento dei controlli qualitativi. Produrre qualcosa all’estero difatti mette in condizioni di essere più attenti alla produzione. Produrre lontano equivale ad avere meno sotto controllo la produzione stessa e quindi a spendere di più nel momento in cui riportiamo il prodotto nel nostro Paese.

Non parliamo poi della questione non meno importante di perdita dell’immagine. Noi italiani sappiamo bene come l’immagine sia importante. L’Italia è da sempre famosa per la buona cucina, non poniamo neanche la questione di cosa scegliereste se vi trovaste di fronte a due alimenti, uno “made in Italy” e un altro uguale prodotto invece all’estero. Spostare la produzione all’estero porta inevitabilmente ad una perdita d’immagine, che equivale quasi ad una perdita di qualità del prodotto stesso.

L’esperienza delle imprese italiane di spostare le proprie attività produttive in altri Stati ha origini lontane. La FIAT fu una delle primissime industrie ad attuare più di 30 anni fa questa nuova misura, ma alle origini il fenomeno riguardava solo le grandi industrie e non comportava grossi rischi per l’aumento della disoccupazione. Il problema di oggi invece è che si ricerca una delocalizzazione sempre più alla riduzione dei costi della manodopera, e soprattutto non si parla più solo delle grandi industrie, ma anche delle medie  e piccole produzioni. La stessa FIAT, che all’epoca utilizzò la delocalizzazione in misure così ridotte, oggi fa fatica ad essere ancora considerata un’impresa italiana.


A conti fatti, pur non essendo degli economisti, ci risulta alquanto improbabile poter guardare a questo fenomeno in maniera esclusivamente positiva. Come si fa a dire che la delocalizzazione è a tutti gli effetti un bene per il nostro Paese se tutti noi sappiamo benissimo quanto la disoccupazione ai giorni nostri abbia raggiunto dei livelli storici. 

Come facciamo noi italiani a dover rinunciare ai nostri marchi, alla nostra identità? La delocalizzazione di oggi, così come viene attuata dal grosso delle imprese italiane, è deleteria, è un rinunciare alla propria identità, è un cedere il proprio “made in Italy” per qualche profitto in più. Questo modo di delocalizzare è una sorta di “ultima spiaggia”, ci viene presentato come un meccanismo economico fondamentale e al passo coi tempi, ma in realtà non è altro che un ripiego per tentare di rimanere a galla in un’Europa che sempre di più ci lascia indietro, abbandonati a noi stessi. E’ veramente questa l’unica via di ripresa per il nostro Bel Paese, svendere i propri marchi storici? Noi speriamo proprio che non sia così. L’identità è forse il bene più importante da preservare per un paese, e nel nostro caso, in un paese come l’Italia, probabilmente vale anche di più, visto che l’orgoglio di essere italiani è una delle poche ricchezze che ci rimane da custodire al giorno d’oggi.

martedì 14 aprile 2015

Sintesi del Terzo appuntamento con Gymnasium

Nel terzo appuntamento con “Gymnasium” il professore si è soffermato su alcuni degli argomenti più importanti ai fini della comprensione delle ragioni che scatenarono la Grande Guerra,, e per apprendere quel filo logico fondamentale che intercorre tra le delusioni degli ex-combattenti della stessa guerra, il socialismo rivoluzionario ed il Fascismo.

Una lezione che a noi appare fondamentale perché proprio quest’anno ricorderemo il sangue versato dai soldati italiani per definire i confini della nostra nazione, gli stessi soldati che, ritornati nelle loro case, furono umiliati dalle istituzioni che non furono capaci di far valere le ragioni dell’Italia a livello politico internazionale (vedi vittoria mutilata, Fiume) e né diedero il giusto risalto a quell’enorme sforzo compiuto da questi soldati lasciandoli fuori dalla vita politica italiana e non ricompensandoli come a questi effettivamente spettava.
Non ci sentiamo di esagerare affatto quando sosteniamo che fu proprio in questa guerra, fu proprio nelle trincee che questi soldati, provenienti da tutta Italia,  formarono quel concetto astratto di popolo che per noi resta oggi un caposaldo da riconquistare: comunità di destino. Ebbene fu la trincerocrazia della Grande Guerra a creare il popolo italiano.



Durante la lezione abbiamo ovviamente analizzato le ragioni scatenanti del conflitto ed i rapporti che intercorrevano tra i vari Stati, smascherando anche il falso storico del “volta gabbana” italiano alla Francia, infatti i rapporti tra i due paesi erano già da tempo molto tesi; abbiamo analizzato la figura fondamentale di Otto Von Bismarck e la sua visione, già all’epoca, europeista. Infine, Filippo Corridoni. Personaggio fondamentale per comprendere il filo conduttore tra socialismo rivoluzionario e Fascismo, ed ancor di più lo spirito volontaristico che spingeva questi italiani ad arruolarsi per combattere, ma non solo: Corridoni, date le sue non ottimali condizioni di salute, fu relegato nei reparti di assistenza sanitaria, ma insieme ad altri due soldati egli scappò per unirsi alle prime linee, fermato e processato per insubordinazione fu presto rilasciato e gli fu concesso di combattere in trincea. 


Più di tutti lo riassume la sua storica frase: “Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!”.

domenica 12 aprile 2015

Nazionalizzazione, Rilocalizzare, Ricostruire

La vergogna non conosce limite: in un Paese in cui inorgoglirsi del proprio operato non comporta più alcun tipo di tutela, oltre al danno si aggiunge anche la beffa di esser considerati burattini nelle mani di Bruxelles. Contro la delocalizzazione, contro questo fenomeno di schiavismo, il cui unico scopo è quello di svendere i comparti industriali, agroalimentari, energetici, dei trasporti e dei servizi, noi ribadiamo con estrema fermezza il nostro dissenso.

Non prenderemo parte a questo piano criminale, svolto da governi antinazionali, che abbassano il capo dinanzi ai voleri dell’Unione Europea, fagocitando ancor di più la colonizzazione della Nazione.

Considerare i dipendenti italiani come meri oggetti di lavoro, significa ignorare deliberatamente non solo la dignità di essere umano, ma anche la soggettività e l’importanza che ne deriva all’interno del processo produttivo. Rimanere ciechi di fronte questa mancanza di tutele significa oltremodo legittimare tale gestione delinquenziale dell’economia italiana.
La delocalizzazione delle aziende italiane ha prodotto all’estero quasi due milioni di posti di lavoro. Solo dal 2011 ad oggi circa trentamila aziende hanno delocalizzato. I costi sopportati dallo Stato per pagare tutti gli ammortizzatori sociali a tutela dei lavoratori disoccupati, hanno ormai toccato e superato i cinque miliardi di euro. Dunque il 10% ogni anno delle motivazioni della perdita del lavoro degli operai italiani è proprio la delocalizzazione

Per scongiurare e porre rimedio ad una situazione ormai in extremis, le uniche alternative valide, per le quali continuiamo a batterci, sono la Nazionalizzazione, la Rilocalizzazione e la Ricostruzione dello Stato sociale.
Carattere imprescindibile per la nazionalizzazione delle risorse, dei comparti produttivi e strategici è senza alcun dubbio la sovranità politica e monetaria: lo Stato deve tornare a battere moneta, ad esserne il proprietario.
Privatizzare le aziende, delocalizzare i settori produttivi, sono alcune tra le azioni maggiormente deleterie per il nostro Paese: ridurre ai minimi termini tutti quei settori considerati punti nevralgici di rinascita per l’economia nazionale riflette la medesima gestione economica insensata di cui i partiti al governo si fanno portavoce. La nazionalizzazione dei settori strategici industriali, energetici, dei trasporti e dei servizi rappresenta, secondo noi, l’unico modo possibile per riportare la finanza a servizio dell’economia reale. Per la nostra visione etica dello Stato, sono proprio questi i settori che dovrebbero rappresentare quei beni comuni estranei alle logiche di mercato, a pieno servizio del Popolo italiano.
Per sconfiggere questa piaga è dunque necessario non solo Nazionalizzare, ma anche e soprattutto Rilocalizzare: una localizzazione intesa come filosofia politica che conferisca priorità alle realtà locali, promuovendo il consumo, la storia e la cultura della stessa identità locale.

Rilocalizzare le imprese significa garantire dunque un futuro ai nostri figli; significa
proteggere industrie e lavoro; significa credere concretamente nella crescita economica e nello sviluppo tecnologico dell’Italia. Nessuna riforma istituzionale salverà questo paese se non saremo in grado di far ripartire l’industria.

Per rendere concrete le nostre parole, proponiamo cinque punti fondamentali, assolutamente possibili sul piano economico:

1) La tassazione raddoppiata per le merci prodotte fuori dall’Unione Europea, successivamente vendute in Italia

2) Delle sanzioni fiscali per tutte quelle aziende che delocalizzano

3) Delle agevolazioni fiscali a tempo indeterminato per le aziende che rilocalizzano

4) Lo snellimento della burocrazia per rilocalizzare con l’ausilio della creazione di un ente controllato dalla Regione, che metta a disposizione degli imprenditori un consulente legale fisso per ogni azienda con la funzione di semplificare le pratiche burocratiche

5) L’istituzione di una legge che sancisca di emettere procedimenti penali contro chi delocalizza senza giusta causa, con indagini eseguite direttamente dalla Procura della Repubblica

Alla luce di questa analisi, in ultima istanza, dobbiamo necessariamente Ricostruire la Coscienza Nazionale, la Tutela del Lavoro e lo Stato Sociale. NOI SIAMO ITALIANI!