martedì 23 dicembre 2014

Ecco perché Marino è al 20%



“Spero che nei prossimi anni Roma possa essere orgogliosa di me. Sono davvero tantissime le cose che devono essere fatte in questa città è una città meravigliosa e sono sicuro che ogni singola persona ami questa città come la ami io e che vuole vedere Roma riprendersi quel ruolo internazionale che le spetta”.

Queste le prime parole del sindaco Marino dopo aver vinto le elezioni. In questi anni il “vostro” sindaco ha fatto più per gli altri che per i cittadini della capitale. Basti pensare che qualche tempo fa il comune di Roma ha tolto 3,7 milioni di euro all’assistenza scolastica per i bambini disabili per spostarli sui servizi di carattere sociale rivolti ai rom. Una voce alla quale verranno assegnati 5 milioni in più rispetto al 2013, nonostante il business della «Rom Spa» nella Capitale si aggiri già intorno ai 24 milioni l’anno. Quello che colpisce è che in questi anni a Roma le politiche per l’integrazione dei rom abbiano completamente fallito, facendo diventare poco meno di 8.000 persone un problema sociale purtroppo molto sentito dalla popolazione. Per la gestione degli 8 «villaggi della solidarietà» presenti a Roma, nei quali vivono 4.391 persone, il Comune di Roma ha speso più di 16 milioni di euro. Tra questi, il campo di Castel Romano, dove risiedono 989 rom, risulta il più costoso: oltre 5 milioni di euro nel solo 2013.

Tra l’altro, bisogna sempre specificare che questi soldi non vanno direttamente alle famiglie rom «ospiti» dei campi, ma a tutta quella galassia di cooperative rosse, operatori, soggetti economici che attingono dal business. E visti gli scandali di questo periodo ormai sulla bocca di tutti, non aggiungiamo altro. Non spereremo mai sulla croce rossa!

Altro paradosso è la diminuzione di 1,3 milioni di euro alla voce di spesa per la vigilanza nei campi rom della Capitale. Ad oggi le forze di sicurezza sono assolutamente insufficienti e nei villaggi sussistono atti di illegalità le cui attività danno vita a roghi, incendi, cassonetti bruciati e risse fra gli abitanti. Un esempio è il campo rom sito in via salvati a Tor sapienza, quartiere periferico di Roma e una delle zone più attive a combattere il degrado. Roghi tossici ogni mattina e sera, traffico di rifiuti, smaltimento di eternit in modo illegale e anche di grandi elettrodomestici, black out ripetuti dell'illuminazione nel piazzale della stazione dovuto ai furti di cavi di rame. Non si parla di razzismo ma di esasperazione.

Un’altra bella storiella narra di “Marino e il pandino rosso”. L’auto del sindaco è una fiat panda rossa e per molto tempo è stata posteggiata in zona ztl nonostante il suo permesso fosse scaduto il 23 giugno 2014. Permesso rinnovato ben due mesi dopo, il 21 agosto 2014. Per questo motivo, il Sindaco ha preso otto multe che, però, poi l’amministrazione comunale ha annullato. Il Sindaco in questi giorni ha dichiarato di aver pagato le 8 multe con dei bollettini postali e non alla cassa dell’ufficio contravvenzioni, che non poteva più ricevere il pagamento. Ma secondo la legge i verbali di autotutela, una volta emanata la procedura di annullamento non sono più esigibili cioè non è più possibile riscuotere le somme dovute. Quindi una volta immessa la causale di pagamento nel bollettino il comune dovrà restituire la somma percepita al mittente. “La domanda sorge spontanea: ma tu che sei il primo cittadino non dovresti dare l’esempio?”

Senza entrare nel merito degli scandali di “Mafia Capitale” e di tutti i suoi assessori o uomini di partito coinvolti, va detto che al sindaco Marino si contesta soprattutto la gestione delle priorità comunali. In una città in cui le precedenti gestioni possono essere giudicate se non criminali ma quasi, e in cui le casse di Roma hanno un buco di miliardo di euro che recentemente e parzialmente  lo Stato ha sanato, un sindaco non può permettersi il lusso di non fare nulla per l’emergenza abitativa, la ricostruzione del manto stradale nei punti critici della città, la sicurezza sulle nostre strade e pensare a rom, matrimoni gay e via dei Fori Imperiali.
Gli ultimi sondaggi non smentiscono la pessima considerazione che i romani hanno di questo anomalo sindaco: rimane fermo, infatti, al 20%. Da quel 12 giugno 2013 oggi possiamo anche dirlo: Marino non siamo orgogliosi di te”.


martedì 16 dicembre 2014

Trattative Stato-Mafia. Una Storia da non dimenticare!


Il “Mondo di Mezzo”, così viene chiamata da giorni l’organizzazione di stampo mafioso che ha operato, ed opera tutt’ora, all’interno della capitale italiana. Un’organizzazione che coinvolge tutti, da personaggi della politica a gente dello spettacolo, imprenditori e uomini di Chiesa, tutti hanno lucrato senza alcuno scrupolo alle nostre spalle mangiandosi milioni e milioni in denaro pubblico. Tutto ciò non è una novità agli occhi dei romani, basta infatti andare indietro di qualche anno per accorgersi che coinvolgimenti tra Stato e Mafia sono sempre stati all’ordine del giorno, e ad oggi rappresentano purtroppo, un “cancro” all’apparenza incurabile.

Facciamo ora un veloce excursus che ci riporta agli anni tra il 1992 e il 1993, quando sono avvenuti i fatti che hanno poi portato alle indagini sulle cosiddette trattative Stato-Mafia. Il 12 marzo del 1992 viene ucciso Salvo Lima, proconsole di Giulio Andreotti. Ucciso poiché durante un maxi processo non era riuscito a garantire l’incolumità dei capi mafiosi incastrati dal Giudice Giovanni Falcone. Salvo Lima aveva da sempre rappresentato il punto di equilibrio tra lo Stato e la Mafia, e con la sua morte molti personaggi politici di spicco si sentono in forte pericolo. Il 23 maggio del 1992 viene assassinato Giovanni Falcone. I carabinieri del Ros, tramite altri contatti, cercano di arrivare a Totò Riina, capo supremo di Cosa Nostra, con la speranza di trattare e porre fine alle stragi. La volontà di instaurare queste “trattative” non si sa da dove provenga, intanto però il 19 Luglio dello stesso anno muore anche Paolo Borsellino. Il 15 gennaio del '93 i carabinieri arrestano Totò Riina. E' una cattura "strana". Non perquisiscono il suo covo, non inseguono i suoi complici. Il ministro Mancino addirittura annuncia l'arresto di Riina qualche giorno prima. Il sospetto è che Riina sia stato "venduto" da Bernardo Provenzano, l'altro capo mafia di Corleone. Gli attentati e le uccisioni continuano, e con essi sicuramente anche le “trattative”. Non a caso nel 1993 ben 441 mafiosi rinchiusi al 41 bis vengono trasferiti in regime di "normalità" carceraria. Con i continui rimpasti di governo alla fine si raggiunge una nuova “pace” fra Stato e Mafia. La Mafia non rappresenta più un problema, almeno così doveva sembrare all’apparenza.

Ci avviciniamo ora a tempi più recenti dove alcune indagini hanno indotto la procura di Palermo a voler ascoltare l’attuale capo dello Stato Giorgio Napolitano come testimone. Questo perché, nel 2012, Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza al processo di Palermo, fece più volte delle telefonate alla sede del Quirinale ed ebbe modo di parlare diverse volte con Napolitano in persona. Il caso mediatico in ogni caso esplode già nel giugno del 2012, quando Napolitano rende pubblica una lettera a lui indirizzata da Loris D’Ambrosio, l’allora consigliere giuridico del Quirinale. La lettera desta scalpore poiché contiene un passaggio abbastanza ambiguo e per molti versi inquietante, dove lo stesso D’Ambrosio si considera un “utile scriba di indicibili accordi” presi fra il 1989 e il 1993. A quali accordi faceva riferimento D’Ambrosio, e quanto ne sapeva realmente Napolitano all’epoca dei fatti? La domanda sorge spontanea ed induce i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-Mafia a fare richiesta per ascoltare Napolitano come testimone dei fatti.

Dal canto suo Napolitano afferma di non aver mai chiesto spiegazione a D’Ambrosio sugli “indicibili accordi”, non ne aveva motivo e di conseguenza non glielo avrebbe domandato. Eppure D’Ambrosio scrive “lei sa”. Sempre Napolitano afferma poi di non poter riferire alcuna informazione utile al processo e ribadisce l’intenzione di non voler apparire di fronte ai magistrati.

Concedendoci il beneficio del dubbio, ci riserviamo il diritto di essere critici nei confronti di tali atteggiamenti ambigui nonché sospetti da parte di un capo di Stato, soprattutto alla luce dei fatti delle ultime settimane che hanno visto coinvolti in giri mafiosi personaggi di un certo calibro e di una certa
rilevanza. Noi chiediamo chiarezza, chiarezza e correttezza da parte di chi, dovrebbe in linea teorica, tutelarci e amministrarci.Un nuovo inizio è possibile, una rinascita del nostro Paese non è un’utopìa, bisogna solo avere il coraggio di eliminare il marcio dalla nostra Italia.

domenica 14 dicembre 2014

Che cos'è davvero l'ISIS?



Negli ultimi mesi non si parla dall'altro. L'isis, o Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, un’organizzazione molto particolare che si definisce come “Stato” e non come “Gruppo”. Grazie al suo modus operandi crudele e terroristico Controlla tra Iraq e Siria un territorio esteso approssimativamente come il Belgio, e lo amministra in autonomia, ricavando dalle sue attività i soldi che gli servono per sopravvivere. Teorizza una guerra totale e interna all’Islam, oltre che contro l’Occidente, e vuole istituire un califfato senza precisi confini.


Per capire l’ISIS – da dove viene, che strategia ha, dove può arrivare – abbiamo messo in ordine alcune cose essenziali da sapere. Che tornano utili per capire che cosa sta succedendo in Medioriente, e non solo in Iraq e in Siria. Innanzitutto bisogna capire quali sono le figure fondamentali che sono a capo di questi gruppi islamici sunniti più estremisti in circolazione. Il primo, conosciuto da tutto il mondo per gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, è Osama bin Laden, uomo di origine saudita che per lungo tempo è stato a capo di al Qaida; il secondo è un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri, che ha preso il posto di Bin Laden dopo la sua uccisione in un raid americano ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011; il terzo è Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta era stato uno dei rivali di Bin Laden all’interno del movimento dei mujaheddin, e poi anche di al Qaida. Rispetto agli obiettivi di al Qaida, Zarqawi aveva altro in testa: voleva provocare una guerra civile su larga scala e per farlo voleva sfruttare la complicata situazione religiosa dell’Iraq, paese a maggioranza sciita ma con una minoranza sunnita al potere da molti anni con Saddam Hussein. Questo perché l'intento principale di Zarqawi era creare un califfato islamico esclusivamente sunnita. Tale concezione è molto importante, perché definisce anche oggi la strategia dell’ISIS e ne determina le sue alleanze in Iraq. In pratica Zarqawi voleva portare avanti una campagna di sabotaggi continui e costanti a siti turistici e centri economici di stati musulmani, per creare una rete di “regioni della violenza” in cui le forze statali si ritirassero sfinite dagli attacchi e in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti. Praticamente le cose sono andate così.
 
Nel 2003 il gruppo di Zarqawi fece esplodere un’autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti, tra cui l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim. Fu un attacco violentissimo. Negli anni gli attentati andarono avanti e nel 2004 Zarqawi sancì la sua vicinanza con al Qaida chiamando il suo gruppo Al Qaida in Iraq (AQI): nonostante la differenza di vedute, l’affiliazione garantiva vantaggi a entrambe le parti, per esempio permetteva a Bin Laden di avere una forte presenza in Iraq, paese allora occupato dalle forze americane. Nel frattempo, nel 2006, Zarqawi venne ucciso da un ordigno americano, e il suo posto fu preso da Abu Omar al-Baghdadi, il quale a sua volta venne ucciso poi nel 2010 è sostituito da Abu Bakr al-Baghdadi. Il gruppo di al-Baghdadi subì un notevole indebolimento nel 2007 a seguito del parziale successo della strategia di contro-insurrezione attuata nel 2007 in Iraq dal generale statunitense Petraeus, che prevedeva una maggiore vicinanza e solidarietà delle truppe con la popolazione e che contribuì a ridurre le violenze settarie e il ruolo di al Qaida per almeno due anni. La strategia di Petraeus si basava su una collaborazione con le tribù sunnite locali, che mal sopportavano l’estremismo di al Qaida: questa strategia oggi sembra inapplicabile, a causa delle politiche violente e settarie che il primo ministro sciita Nuri al-Maliki ha attuato contro i sunniti negli ultimi quattro anni, compromettendo per il momento qualsiasi possibilità di collaborazione.

Nel 2011 il gruppo ricominciò a rafforzarsi, riuscendo tra le altre cose a liberare un certo numero di prigionieri detenuti dal governo iracheno. Nell’aprile del 2013 AQI cambiò il suo nome in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), dopo che la guerra in Siria gli diede nuove possibilità di espansione anche in territorio siriano. Il fatto di includere la regione del Levante nel nome del gruppo (cioè l’area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro) era l’indicazione di un’espansione delle ambizioni dell’ISIS, ma non ne spiegava del tutto gli obiettivi finali. Si pensa che uno di questi sia quello di combattere il presidente sciita della Siria Bashar al Assad, il quale già da quattro anni a questa parte sostiene che "Damasco farà ogni sforzo internazionale per combattere il terrorismo".

Per tale motivo, come confermato anche da al-Baghdadi, proprio il presidente Assad e le sue milizie siriane sono l'altro grande nemico dell'ISIS, perché colpevoli, secondo la loro opinione, di aver instaurato un regime che viola i diritti dei sunniti. Nonostante numerose minaccia fatte recapitare ad Assad, il presidente siriano continua nella sua lotta contro le guerre settarie e il furore jihadista, ricevendo l'appoggio anche da parte dell'occidente. Ciò rappresenta una stranezza storica dal momento che, fino al 2013 aveva tutti contro, a partire dagli USA . Stranezze della storia: soltanto un anno fa, il terrorista agli occhi di Washington era proprio Bashar, reo di aver usato armi chimiche contro la sua stessa popolazione, e le bombe da sganciare erano quelle sul suo quartiere generale a Damasco. Ma le geometrie variabili del Medio Oriente sono ancora più variabili da quando i confini tracciati con il righello alla fine dell’Impero Ottomano sono crollati sotto il peso delle lotte intestine e dell’incapacità di capirle, equamente distribuita tra Washington, Londra e Bruxelles. E Bashar, con le mani sporche di sangue, si ritrova spavaldamente ad affrontare la sua battaglia contro i veri terroristi che minacciano l'unità, la laicità e la sovranità della Siria.

giovedì 11 dicembre 2014

TTIP: Natura ed Effetti



Il TTIP o meglio, il Transatlantic Trade and Investment Partnership, è un accordo in fase di negoziazione tra il Nord America e l’Unione europea che ha per principale fine, la costruzione di un mercato unico per merci, investimenti e servizi.

Le trattative, iniziate nel giugno del 2013, dovrebbero trovare conclusione entro il 2015 e dalle entusiastiche dichiarazione del Premier Renzi che così quest’ottobre affermava “Ogni giorno che passa è un giorno perso per l’intesa, il nostro è un appoggio totale e incondizionato”, non dubitiamo che tale scadenza verrà rispettata.

Ma effettivamente cos’è questo tanto agognato TTIP?

L’obiettivo principale di questo trattato di libero scambio tra Europa e Nord America è quello di abolire i dazi doganali e uniformare i regolamenti dei due continenti, in modo da rimuovere ogni tipo di ostacolo alla libera circolazione delle merci e alla libertà di investimento e di gestione dei servizi: il tutto è fondamentale per la costituzione di un unico grande mercato. Per dare un’idea di quanto questo trattato inciderà sulla nostra economia (e non solo), basta dare uno sguardo agli argomenti in esso trattati: “l’accesso al mercato per i prodotti agricoli e industriali, gli appalti pubblici, gli investimenti materiali, l’energia e le materie prime, le materie regolamentari, le misure sanitarie e fitosanitarie, i servizi, i diritti di proprietà intellettuale, lo sviluppo sostenibile, le piccole e medie imprese, la composizione delle controversie, la concorrenza la facilitazione degli scambi, le imprese di proprietà statale”.

Ovviamente, una volta raggiunto questo accordo, agli Stati nazionali non resterà che uniformarsi a quanto in esso pattuito ma soprattutto è previsto che qualora uno stato contravvenisse sarebbe oggetto di azione legale, presso appositi tribunali sovranazionali, con potere di sanzione nei confronti degli stati contravvenienti.  In parole spicce, una qualsiasi multinazionale potrebbe citare in giudizio uno Stato se, avendo costruito uno stabilimento nel suo territorio, questo decidesse di adottare una politica differente da quella precedente(aumento dei salari minimi o rafforzamento delle misure di tutela di ambiente e salute).

Tutto ciò viene sottaciuto dai grandi giornali e dalla nostra classe “politichese” al grido di: “più posti di lavoro” “aumenterà il Pil ed il reddito pro capite” e, tanto per cambiare “ce lo chiede l’Europa”. Eppure ci chiediamo come possa un’ulteriore apertura, tra l’altro così radicale, ad un mercato globalizzato essere vantaggioso quando in paesi come gli Stati Uniti sia possibile coltivare prodotti OGM o non abbia alcun valore la determinazione dell’origine di un prodotto e le regole per la tutela dell’ambiente siano molto meno vincolanti.

A noi sembra che questo sia l’ennesimo attacco a tutta quella piccola-media industria italiana che si vedrebbe nuovamente contrapposta ad un nemico con cui non può competere, senza che questo Stato fantoccio faccia niente per tutelare le sue aziende invece che mandarle allo sfacelo. Complimenti vivissimi, Mister Renzi!

martedì 9 dicembre 2014

Riprendiamoci i Marò e l'Industria. Riprendiamoci l'Italia!


Riprendiamo un argomento già trattato su "Il Maestrale". Il caso Marò. Come già scritto negli articoli passati,questa vicenda mette in risalto la completa assenza di sovranità nazionale del nostro Paese. Sappiamo tutti come sono andate le cose e come purtroppo stanno procedendo. Attualmente Massimiliano Latorre si trova in Italia per curarsi a seguito di un ictus che lo ha colpito a fine agosto. Il rientro in India è previsto per il 13 gennaio dove rincontrerà l'altro Marò Salvatore Girone che resta "saldamente" al suo posto. Continua quindi il fermo dei nostri Marò e dopo circa tre anni il nostro governo non è riuscito a riportarli definitivamente a casa. Sembrano non esserci idee su come sbloccare questa situazione.

Poi succede che a fine giugno vengono arrestati dalla guardia di finanza 18 marinai indiani nel canale di Sicilia:due navi con a bordo quasi 70 tonnellate di hashish. Pronta la difesa dei marinai che dicono di non sapere nulla e addossano la colpa ai comandanti siriani che guidavano le navi. Il classico scaricabarile a cui ricorrono quasi tutti. Ma ecco che viene in mente a qualche nostro politico di poter sfruttare questa situazione. Scambiare i 18 indiani con i nostri Marò. Sembra tutto bello e facile ma pensate ad una cosa. Innanzitutto stiamo parlando di scambio di persone come fossero pacchi e già questo è poco rispettoso del genere umano perchè è si vero che i nostri soldati sono italiani ma non sono proprietà di nessuno.

Altro aspetto è che si sta parlando di uno scambio non equo: da una parte ci sono dei trafficanti di droga e dall'altro lato ci sono dei militari che stavano svolgendo onestamente il loro lavoro. Poi già solo il fatto di scambiare prevede che l'Italia abbia già dichiarato colpevoli i nostri soldati. Sarebbe come ammettere la responsabilità dei fucilieri. Ma come? Fino ad adesso ci si sta battendo per la completa estraneità ai fatti e ora praticamente si vuole ammettere il reato? Fate pace con la testa cari politici. Il bene primario è riportarli a casa ma per favore non abbassiamo la testa per l'ennesima volta. Tra l'altro così facendo l'India riuscirebbe a far avviare un processo ai suoi marinai nel loro paese d'origine quando l'Italia sono due anni che prova a chiedere di poter giudicare i suoi soldati nel loro Paese. Cose dell'altro mondo! E intanto il tempo passa,il tribunale speciale di New Delhi ha rimandato al 20 febbraio l'esame della vicenda. Il 12 dicembre si discuterà il ricorso. Aspettiamo e vediamo...

Sappiamo che la speranza è l'ultima a morire e voci di corridoio ci allarmano un po' sul fatto che l'Italia avrebbe promesso alcuni "favori" all'India a rimpatrio dei nostri Marò. Se questo significa riacquistare la nostra sovranità allora preferiamo rimanere così. Essere ricattati significa non essere sovrani. A tutto questo scempio si aggiunge anche il silenzio del nostro governo nei confronti di noi cittadini. Praticamente riceviamo più informazioni dal governo indiano come a significare che noi italiani non abbiamo diritto ad una giusta informazione da chi ci governa. E purtroppo la colpa la attribuiamo anche a tutti quegli italiani che hanno votato per portare questi politici a scaldare le poltrone. La solita storia,la solita Italia!

Ad alimentare i contrasti che ci sono tra Italia e India ci si mette anche Expo 2015. A questo evento parteciperanno 142 nazioni,ma il fatto di essere noi il Paese ospitante sembra essere molto sottovalutato. Si pensi che ci sarà un forte impatto asiatico,la Cina sarà presente addirittura con tre grandi padiglioni. E l'India? Sicuramente risulta poco impegnata e uno dei motivi di questo scarso interesse supponiamo risieda anche nella gestione del caso Marò. Questo argomento ci proietta sui rapporti commerciali e industriali che intercorrono tra questi due Paesi. Sembra quasi che si voglia riuscire a trovare una soluzione diplomatica al caso per non intaccare gli scambi commerciali,piccoli ma pur sempre in crescita. Una mancata riconsegna dei Marò all'India avrebbe potuto inclinare questo rapporto e tante aziende italiane avrebbero potuto subire una ricaduta visto che molte aziende nostrane hanno sedi in India. Parliamo di circa 400 società italiane già operanti in India con un interscambio commerciale che ogni anno aumenta. Pensiamo ad una fiera agricola che si è svolta in India in cui le macchine agricole italiane l'hanno fatta da padrone.


E in questo quadro di scambio industriale si inserisce prepotentemente Finmeccanica. Essa controlla e possiede la proprietà
di AugustaWestland,azienda multinazionale italo-britannica che produce elicotteri. Succede che qualche anno,e precisamente nel 2010,si avvia un'inchiesta sul fatto che Finmeccanica avrebbe pagato delle salate tangenti destinate a militari e ministri indiani per favorire la maxifornitura di 12 elicotteri acquistati dall'India. Già potremmo dire quindi che tutto il mondo è paese. Infatti i beneficiari di queste mazzette come sempre risiedono ai vertici quindi parliamo di premier,segretari,politici,ministri,presidenti,governatori,insomma tutta la classe politica. Diverso Stato ma stesso risultato. Senza entrare nel dettaglio della vicenda,qualche mese fa sono stati assolti i responsabili di AugustaWestland.

Possiamo dire che la sentenza scagiona l'Italia ma ha lasciato comunque un buco di quasi due anni in cui l'industria italiana aerospaziale ha perso credibilità. Conseguenza di ciò è stato che l'India ha escluso Finmeccanica da possibili acquisti. Ecco quindi che tra Italia e India c'è ancora forte tensione. A noi l'unica cosa che importa è che i nostri soldati tornino in Italia e che il nostro Paese possa dare maggior risalto alle proprie industrie. Vorremmo che lo stato difendesse quello che possiede e non lo svendesse a paesi stranieri. Vorremmo finalmente commentare un esito positivo di questa vicenda. Vogliamo e dobbiamo mantenere alta l'attenzione anche se qualcuno sembra dimenticare. Come in tante altre battaglie sappiamo che...alcuni italiani non si arrendono!

domenica 7 dicembre 2014

Credere fermamente in ciò che si fa. Resoconto del Mio Viaggio in Siria.

Queste semplici parole, che racchiudono un intero mondo ed uno stile di vita, sono state sufficienti ad armare la mia anima di coraggio, farmi imbarcare in un aereo e raggiungere un Paese in guerra. In molti mi chiedevano cosa mi spingesse a fare una missione così delicata e in pochi riuscivano a capacitarsi della mia ferrea convinzione nel raccontare ciò che di li a breve sarei andata a svolgere in Siria, e la mia risposta era una ed irremovibile: aiutare un popolo direttamente nella propria Terra d’ appartenenza, che combatte per la propria storia, identità e cultura è un progetto iniziato tanti anni fa, quando ancora si sognava di un Impero e che quindi noi non possiamo esimerci dal portarlo a termine.

Dopo anni di banchetti, manifestazioni e conferenze, era dunque arrivato il momento di portare il nostro supporto ad un popolo che lo meritava, entrando nel vivo della solidarietà e vivendo in prima persona quella Nazione sulla quale, nei tre anni di conflitto, ne avevamo sentite di cotte e di crude. Bene, ad oggi mi sento di affermare a gran voce e con consapevolezza che, tralasciando il pubblico più accorto a filtrare accuratamente le notizie trasmesse dai mass media, il resto dell’ occidente dovrebbe dimenticarsi di tutte le balle mediatiche lette o sentite in merito alla guerra in Siria. Essa è il contrario dell’ intolleranza e dell’ inciviltà, il suo Popolo è uno tra i più ospitali conosciuti e la loro dignità nell’ affrontare ogni situazione, dalla più banale alla morte di un figlio Martire, è esemplare per tutti noi.

La missione Solid è nata con l’ intento di portare al popolo siriano, in lotta contro un sistema che vorrebbe annullare la loro sovranità nazionale, materiali di prima necessità per la sopravvivenza come medicinali, ambulanze e defibrillatori ma anche un sorriso, speranza, supporto morale, dimostrando loro che non stanno combattendo un sistema più grande di tutti noi da soli, ma che alcuni europei ci sono e sono dalla loro parte; molto spesso però, quelli che hanno impartito lezioni di coraggio e dimostrazioni di valore, sono stati proprio loro e noi, non potevamo far altro che prenderne nota e rifletterci sopra.

A Damasco, il governo Assad, compreso il gran Mufti siriano, ci ha dato un chiaro spaccato della situazione pre-conflitto e di quella attuale: pace, tolleranza, equilibrio, industria fiorente e ottima istruzione fino allo scoppio della guerra poi, bombardamenti, morte e stupore misto a paura nel vedere un viso nuovo nella propria città; ma i siriani non si arrendono, non si lasciano abbindolare da quel lassismo fazioso tipico dell’ occidente, combattono a costo di dormire con i propri figli in macchina perché timorosi che nel bussare al portone ci sia un boia dietro.

La seconda parte della missione, svoltasi a Tartous, molto più toccante rispetto agli incontri istituzionali, ci ha fatto addentrare nella vita dei civili facendoci vivere da protagonisti cosa vuol dire affrontare i più stupidi gesti quotidiani durante una guerra in corso; uomini e donne una volta liberi, ora costretti ad ammazzare perché l’ unica colpa che hanno è quella di amare la propria Nazione e di volerla difendere per far valere la propria sovranità nazionale invece di lasciarla cadere nel macchinoso gioco internazionale fatto di poteri forti che ha messo gli occhi su una nazione ricca e fiorente come quella siriana e che non vede l’ ora di dividerla con riga e squadra secondo i propri interessi particolaristici.

Di tutta la missione, la parte che ha riassunto in un momento quanto il popolo siriano valga, è stato l’ incontro di una famiglia che stava aspettando in veglia, il corpo del figlio privo di vita caduto al fronte: l’ orgoglio e il coraggio impressi negli occhi di due genitori di quel diciottenne rimarranno per sempre un fermo immagine nella mia mente, ne una lacrima ne un lamento, solo parole per ringraziarci per quanto stavamo facendo. Il padre, dopo averci accolto calorosamente ci ha detto “io avevo solo un figlio, ma se ne avessi avuti altri dieci li avrei mandati tutti a combattere per la nostra Terra e sono inoltre dispiaciuto che non ho un età adeguata che mi ha permesso di cadere accanto a mio figlio”.

Dopo questa esperienza la mia riflessione resta una soltanto, io l’ avrei fatto? e tu?avremmo lasciato la nostra vita fatta di comodità a rischio della vita? A questo punto, a chi poltrisce sul divano, a chi vorrebbe attivarsi ma non trova coraggio o voglia, ai militanti tiepidi, a me stessa, io vorrei lasciare un semplice pensiero che spero riesca a diventare una luce nel tunnel: ragazzi, è ora di farci Uomini e Donne, prendiamo esempio dal popolo siriano, svegliamoci e diventiamo soldati politici, nel senso romantico del termine, perché la nostra Nazione ha bisogno di noi, ci stanno togliendo il futuro.

giovedì 4 dicembre 2014

Articolo 18: Altro che "totem"

Trattare argomenti così dibattuti, come tutte le circostanze relative all’Articolo 18, non sempre può apparire semplice, date le numerose notizie che si susseguono giorno dopo giorno e che rendono l’intero quadro ancor più complicato. Se non fossero sufficienti le prime pagine dei giornali per cercare di comprendere il motivo per cui si parla tanto, a volte anche troppo, della necessità o meno di attuare riforme e controriforme che interessino questi argomenti, noi ci proponiamo di analizzare sistematicamente il problema alla radice, riflettendo su cosa sia effettivamente questo tema così caldo.

L’Articolo 18 è parte integrante dello Statuto dei Lavoratori, fa riferimento alla “Reintegrazione nel posto di lavoro” della legge 20 maggio 1970, n. 300, circa le “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.” Semplificando, si tratta di alcune tra le leggi più importanti in materia di illeciti ed ingiustizie lavorative, che sono a loro volta organizzate in diversi “titoli”, dedicati ad altrettanti differenti temi. L’Articolo 18 rientra nell’ “Articolo II – Della libertà sindacale”, e si occupa dei licenziamenti che avvengono senza una giusta causa per determinate categorie di lavoratori.

Attualmente l’Articolo 18 indica i diritti ed i limiti per chi viene licenziato in modo illegittimo e decide di far richiesta al giudice, dopo 180 giorni dal momento in cui viene impugnato, per ottenere indietro il suo impiego o per essere risarcito del danno subito. Per “illegittimità” del licenziamento, lo Statuto dei Lavoratori fa riferimento alla discriminazione, alla mancanza di una giusta causa o a quella di un giustificato motivo. Se il giudice decide di annullare il licenziamento, si verificano delle conseguenze sia per il datore di lavoro sia per il licenziato, a seconda che il licenziamento stesso venga reputato discriminatorio, per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (disciplinare), oppure per motivi economici.

Lo Statuto dei lavoratori inoltre prevede che le tutele per licenziamenti discriminatori ed economici siano applicate solamente nelle aziende che hanno 15 o più dipendenti (più di cinque nel caso di aziende agricole). Nel conteggio sono compresi i lavoratori con un contratto di formazione, di lavoro a tempo indeterminato o parziale, mentre non vengono contati coniuge e parenti del datore entro il secondo grado. Con la riforma Fornero del 2012 sono state introdotte modifiche sia nella procedura che precedeva il licenziamento, riducendo i tempi per rivolgersi al giudice e introducendo una procedura di conciliazione, sia nella giustificazione del licenziamento stesso (discriminatorio, disciplinare, economico). Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio resta valido quanto stabilito dallo Statuto dei Lavoratori ed è stato tolto il parametro del numero dei dipendenti; in caso di licenziamento disciplinare la riforma stabilisce un risarcimento inferiore (passando da 15 a 12 mensilità) e cancella l’obbligo di reintegro; la stessa cosa vale in caso di licenziamento economico.

Un tema delicato ma al tempo stesso di importanza cruciale. E proprio per questo al centro di numerose proposte fatte, e magari ritrattate, dai diversi partiti al governo. Non ultimo l’intervento di Matteo Renzi, il quale, dopo una serie interminabile di indecisioni e ripensamenti, scontentando anche alcuni dei suoi uomini di partito, parlando inizialmente di “benaltrismo” e fuggendo lo stesso Articolo, definito addirittura un “totem”, oggi cambia marcia, invertendo per l’ennesima volta la rotta. Ad ottobre il governo ha difatti ottenuto la fiducia sulla legge delega per il riordino del diritto del lavoro, scongiurando anche una possibile crisi all’interno dello stesso partito, dovuta ai fermenti di alcuni politici totalmente insofferenti nei confronti dell’intera riforma. Oggi, 4 Dicembre 2014, il Jobs Act è ufficialmente legge.

Riforma che tocca peraltro argomenti determinanti, specialmente per i sindacati, i quali però, non hanno pensato due volte a far dietrofront, “accontentandosi” di veder garantita la difesa ai lavoratori a tempo indeterminato, disinteressandosi completamente dei restanti.

Il governo afferma così le reali intenzioni del da farsi: la legge delega si occupa solamente di aspetti ben precisi. Innanzitutto la disciplina dei licenziamenti, favorendo di conseguenza lo stesso licenziamento per motivi economici. Un indennizzo crescente, in base all’anzianità di servizio, è previsto al posto del reintegro. Resta invece intatto il parere del giudice per i rapporti disciplinari e discriminatori. Successivamente, con la revisione dei contratti, attuata in parte anche dalla riforma Fornero, si stabilisce una forma-base per quelli indeterminati, che risultano più convenienti rispetto agli altri. A conti fatti la situazione è ben diversa dato il numero spropositato di rapporti a tempo determinato raggiunto nel corso del 2014.