martedì 31 maggio 2016

Governo Pinocchio, l'economia italiana non riparte


"Più piccola è la mente più grande è la presunzione" è un famoso detto di Esopo, scrittore greco antico. Un aforisma che ci sembra più attuale che mai, soprattuto se applicato alla politica italiana attuale con un chiaro riferimento al governo guidato dal presidente Renzi. Un governo che sembra vedere solo quello che vuole, solo quello che conviene loro. A sentrli parlare, infatti, l'Italia è ripartita, la crescita è costante e l'Europa è soddisfatta.

Recenti dichiarazioni del ministro dell'economia Padoan raccontano di " una crescita che accelera in buona parte trainata dall'effetto delle misure del governo e si accompagna al miglioramento continuo delle finanze pubbliche sia in termini di deficit che di debito» durante la stesura del DEF,il Documento di economia e finanza, annunciando che il Pil 2016 crescerà dell'1,2, rispetto all’1,6% precedentemente previsto. L’aumento del Pil sarà dell'1,4% nel 2017 e dell'1,5% nel 2018. Quanto alle privatizzazioni «l'obiettivo fissato è dello 0,5% di Pil di introiti». «Stiamo esaminando varie opzioni che ci permetteranno di raggiungere quell'obiettivo» ha aggiunto Padoan.

Dichiarazione accompagnate da quelle del primo ministro Matteo Renzi che afferma "Spero che nel prossimo anno possiamo tornare ai livelli di media europea. l'Italia ha avuto nel 2012 con il governo Monti una crescita negativa. Nel 2013 con il governo Letta ha avuto -1,9. Ora siamo a +0,8 "

Ma i numeri, forniti soprattuto dall'Istat, e i fatti, non concordano con queste ottimistiche visioni.

Negli ultimi dodici mesi hanno chiuso ogni giorno oltre 390 imprese ed è stato osservato che lo scorso anno si è consumata una vera e propria strage di piccole e medie imprese.I principali responsabili di questo disastro sono: lo stallo del mercato interno, l’aumento del prelievo fiscale, il crollo del credito e l’incremento del peso di adempimenti inutili e costosi.

Ma, la crisi non è uguale per tutti. Se, infatti, gli imprenditori italiani arrancano, l’esercito delle aziende condotte da immigrati continua a ingrossarsi: oggi sono oltre cinquecentocinquantamila, ovvero il 9,1% delle aziende totali. Di queste, la stragrande maggioranza (94,2%) è di esclusiva conduzione straniera.


Ma, il dato più importante è quello che riguarda soprattutto il saldo tra imprese nate e cessate nel 2015: quello degli stranieri è in attivo di 24.795 unità, al contrario, le imprese italiane mostrano un saldo negativo di circa diecimila unità. I dati testimoniano la crescente importanza dell’imprenditoria straniera: una realtà in crescita in tutte le regioni e in tutti i settori. Ciò dimostra che  solo con un sistematico sfruttamento della manodopera si può ridurre l’impatto delle tasse sui ricavi delle imprese. Il fisco per le aziende italiane è  un socio occulto che pur non condividendo il rischio d’impresa partecipa alla distribuzione degli utili.  Siamo il paese in Europa che subisce invadenza dello stato nelle attività economiche dei cittadini e delle imprese attraverso la leva del fisco. Il fisco italiano pesa sulle imprese con un tax rate del 64,8%. Inoltre, la burocrazia certo non incoraggia la voglia di investire. L’Italia, infatti, è ultima per costi degli adempimenti burocratici per pagare le tasse (7.559 euro) staccando pure la Germania (7mila euro circa) e il Belgio (6.295 euro). A questi costi si aggiunge la perdita di tempo (e di denaro) per pagare le tasse (269 ore annue): solo in Europa dell’Est le procedure sono più farraginose delle nostre.

Ma andiamo avanti: nel mese di gennaio 2016, la richiesta di elettricità in Italia ha fatto registrare una flessione dell’1,0% a parità di calendario rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Ovviamente possiamo ipotizzare che di anno in anno i comportamenti degli italiani diventino più “parsimoniosi”


Sale solo il consumo di petrolio a gennaio ma meno bene sono andati i prodotti di autotrazione, con la benzina che nel complesso ha mostrato un calo del 6,3% rispetto a gennaio 2015 (livello più basso da 10 anni).

A dicembre 2015 il fatturato dell’industria registra una diminuzione dell’1,6% rispetto a novembre (-1,7% sul mercato interno e -1,4% su quello estero). Negli ultimi tre mesi, l’indice complessivo registra una flessione dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti

A dicembre gli indici del fatturato segnano flessioni congiunturali per l’energia (-4,6%), per i beni strumentali (-2,2%), per i beni intermedi (-1,2%) e per i beni di consumo (-0,7%).

La spesa pubblica, elevatissima e causa di una pressione fiscale abnorme, non accenna a calare. Lo scorso anno essa è aumentata di 52 miliardi di euro e le tasse sono cresciute di quasi 26 miliardi. Rispetto al 2014, nel 2015 le uscite correnti del bilancio pubblico sono passate da 483,8 miliardi a 536,4 miliardi, mentre le entrate tributarie suono salite da 407,5 miliardi a 433,4 miliardi.


Nel nostro Paese il pil  è sceso di oltre 8 punti, i consumi delle famiglie di 6,5 punti e gli investimenti quasi 27,5 punti percentuali. La disoccupazione, invece, è pressoché raddoppiata.
Per recuperare il terreno perso ci vorrà molto tempo. Se nel prossimo futuro il pil crescesse di almeno 2 punti ogni anno, il nostro Paese  tornerebbe alla situazione pre-crisi solo nel 2020. E così non sarà; l’Ocse rivede al ribasso le sue stime per il Pil italiano per il 2016, prevedendo una crescita all’1%

Non riparte la produzione industriale, che dopo il dato di febbraio (-0.6%) fa segnare un’altra performance non esaltante. l’Istat nel suo bollettino di Maggio 2015, segna una variazione nulla rispetto a febbraio. Zero percento netto. La produzione industriale è un indice anticipatore della tendenza di medio periodo, che non sembra così capace di confermare le attese: non più tardi di inizio mese l’Ue ha già limato  di 0.3 punti, a +1.1% (per confronto: è un taglio di oltre il 20%) la crescita del Pil nel 2016.

A ottobre il tasso di disoccupazione in Italia si è attestato all’11,5 per cento, raggiungendo livelli minimi dal dicembre del 2012 quando era all’11,4 per cento. Lo ha riferito l’Istat. Bisogna considerare che il tasso di disoccupazione non tiene conto del numero di persone senza un lavoro che non stanno cercando un impiego, quelle che rientrano nella categoria statistica degli “inattivi”, che sono aumentati.

Tra l’ottobre del 2014 e l’ottobre 2015, il numero degli occupati è cresciuto dello 0,3 per cento, con 75mila occupati in più, ma il dato positivo non è strettamente legato alla creazione di nuovi posti di lavoro perché molto dipende anche dall’invecchiamento della popolazione. Infatti, il numero di occupati è aumentato soprattutto tra le persone con più di 50 anni, fascia di età che dall’inizio del 2013 è cresciuta del 4,7 per cento.

I lavoratori permanenti diminuiscono di 97mila unità. Dopo la forte crescita registrata a gennaio 2016 (+0,7%, pari a +98 mila), presumibilmente associata al meccanismo di incentivi introdotto dalla stabilità 2015 il calo dell’ultimo mese riporta i dipendenti permanenti ai livelli di dicembre 2015 A febbraio 2016 la disoccupazione torna a salire (+0,1%) e calano gli occupati (-97mila posti) a causa della riduzione dei lavoratori permanenti. A pesare è la fine dell’effetto degli sgravi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato previsti dalla legge di stabilità del 2015.

Secondo i dati provvisori diffusi dall’Istat, il tasso di disoccupazione a febbraio 2016 è pari all’11,7 per cento, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a gennaio. L’istituto stima che i disoccupati siano aumentati di circa 7mila unità.

La disoccupazione giovanile a febbraio 2016 è stata pari al 39,1%, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente.



Emerge dunque un dato incontrovertibile: finiti gli incentivi fiscali alle aziende (che sono soldi dei cittadini, non di Renzi), la disoccupazione risale. La sensazione è che il Def 2016 sia costruito in funzione di continuare una politica di qualche aggiustamento di qualche decimale che, non determina le condizioni per quella crescita di cui il Paese ha bisogno. Per tornare a livelli pre-crisi, di questo passo, potremmo metterci più di venti anni. Complimenti vivissimi per il lavoro svolto, presidente Renzi ma soprattutto complimenti vivissimi per la presunzione quotidiana che ormai vi contraddistingue. Presuntuosi e Bugiardi!


mercoledì 18 maggio 2016

"Il Faro di Mussolini" di Alberto Alpozzi

"Il Faro di Mussolini" (l'opera coloniale più controversa e il sogno dell'Impero nella Somalia Italiana) è l'ultima ricerca storica,presentata anche presso lo Spazio Libero Tenaglia, di Alberto Alpozzi, fotoreporter piemontese che ha lavorato per "La Stampa", "Il sole 24 Ore", "Il Giornale" e "Famiglia Cristiana" documentando le guerre in Afghanistan, Libano, Kosovo e la missione antipirateria in Somalia.

Si tratta di un'accurata analisi storico-politica sul più grande faro con la forma di un fascio littorio al mondo, ancora oggi alto più di venti metri, dedicato a Francesco Crispi e finito di realizzare nel 1924 dopo decenni di progetti e discussioni sui costi, situato a capo Guardafui ("guarda e fuggi" dal portoghese, per la poca cordialità degli autoctoni), nel Corno d'africa, la punta più ad est del continente africano.

Una dettagliata analisi che racconta, oltre alle principali informazioni sull'opera (tempi del progetto, costi della realizzazione, discussioni politiche) addirittura la fase preparatoria della costruzione, i primi viaggi dei turisti italiani in Somalia, le celebrità che lo inaugurarono e visitarono, il destino del monumento durante la Seconda Guerra Mondiale.

Alpozzi descrive in maniera estremamente minuziosa la storia di questo importante monumento non solo per la Somalia ma per tutte le nazioni del mondo, visto l'enorme quantitativo di navi che attraversavano in quegli anni (e ancora oggi) il Corno d'Africa (afflusso inferiore solo al Canale di Suez). Una storia che svela una serie di retroscena politici non indifferenti: in primis la meschina politica inglese in Somalia che più volte sottolineò, anche sotto il suo protettorato, la necessità di costruire un faro in quel promontorio nel quale centinaia di navi, in pochi decenni, erano finite nelle trappole dei pirati somali (con i marinai che più volte subirono casi di razzia e di cannibalismo) ma che non si volle mai far carico delle spese della costruzione e del mantenimento. In secondo luogo, la politica coloniale italiana in Somalia mai aggressiva (la Migiurtina, la regione più a nord della Somalia, divenne protettorato del Regno d'Italia ma non fu mai conquistata militarmente ma solo concessa dagli inglesi in virtù di accordi politici) ma anzi sempre propensa a cercare via conciliative con i sultani locali (nonostante più volte tradirono gli accordi presi) e addirittura più volte lodata da giornali e ufficiali inglesi (testimonianze presenti nel libro), che seppur in origine restii a complimentarsi col nostro paese, alla fine non poterono far altro che ammettere la differenza sostanziale tra i due colonialismi: il loro governo depredava, l'Italia costruiva.

Il Faro fu comunque costruito dal regime fascista nonostante gli enormi costi di costruzione e di mantenimento dell'opera (provviste, militari a difesa, tecnici specializzati) e soprattuto senza l'aiuto economico di nessun altro paese al mondo che ne beneficerà direttamente con il passaggio sicuro delle proprie navi (a Suez per esempio fu imposta una tassa durante il passaggio delle navi per le spese di mantenimento del canale).

"Così l'italia irradiò ormai con una triplice luce di grande portata una delle vie più importanti della navigazione mondiale, via di comunicazione tra mari asiatici e africani con il Mar Rosso e il Mediterraneo, ponendo fine a suggello all'ecatombe di navi e di uomini du quella costa infausta e desolata dell'Africa Orientale" (Cesare Cesari, 1935, scrittore, "Somalia Italiana")