domenica 28 febbraio 2016

Il sistema penitenziario nel ventennio fascista

Le misure carcerarie del ventennio furono principalmente legate alle riforme introdotte da Arturo Rocco, ministro della giustizia dal 1925 al 1932 e autore di quello che passò alla storia come "Codice Rocco", corpo di norme in tema di diritto penale. L'idea di fondo del nuovo codice consisteva da un lato, in una maggiore severità contro la delinquenza in nome della difesa dello Stato e degli interessi individuali e collettivi ritenuti da questo meritevoli di tutela, e dall'altro, nell'introduzione di nuovi istituti considerati più moderni e adeguati alla prevenzione del delitto, come le misure di sicurezza.

Il testo definitivo, accompagnato dalla relazione al re, venne pubblicato il 19 ottobre 1930 ed entrò in vigore il I luglio 1931. Il codice fu poi modificato dopo la caduta del fascismo nel 1955.

In Italia la pena di morte fu reintrodotta da Benito Mussolini ed operava principalmente per punire coloro che avessero attentato alla vita o alla libertà della famiglia reale o del capo del govero e per vari reati contro lo stato. C'è da dire comunque che negli anni trenta quasi tutti gli Statoi del mondo adoperavano la pena di morte come pena massima.



Ma Oltre alla pena di morte, durante l'epoca fascista, era in funzione anche il "confino", o meglio noto come "domicilio coatto". Esso era sinonimo di messa al bando dalla società civile e di reclusione di fatto in remote località della nazione, dove vi erano poche vie di comunicazione. Al confino finirono sia antifascisti che fascisti dissidenti, forzatamente isolati su minuscole porzioni di terra in mezzo al mare o in paesi del Sud Italia, così da separarli fisicamente, moralmente e socialmente da qualsiasi contatto con il resto del Paese. Il confino aveva una durata massima di 5 anni, che tuttavia potevano essere rinnovabili. Questo era formato da due tipologie: confino politico e confino comune.

L'uomo che commetteva il reato aveva comunque una leggera libertà personale. Le carceri, ebbero un radicale cambiamento. Quella che era la direzione generale delle carceri e dei riformatori assunse la nuova denominazione di direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena. venne approvato da Rocco il nuovo “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena”, fedele traduzione dell’ideologia fascista nel settore penitenziario. Rimasero le tre leggi fondamentali della vita carceraria, ovvero: lavoro, istruzione civile e pratiche religiose che divennero in seguito tassative. I detenuti non avevano collegamenti con il mondo esterno.





Il Regolamento carcerario del 1931 suddivideva le carceri in tre gruppi: carceri di custodia preventiva, carceri per l’esecuzione di pena ordinaria e carceri per l’esecuzione di pena speciale. Il carcere giudiziario, pooi, era una "permanenza" per le persone arrestate, ma ancora non ritenute colpevoli. I detenuti dovevano indossare apposite divise, farsi trovare vicino alla branda ben ordinate tutte le volte che le guardie entravano in cella. Era consentito scrivere due lettere in una settimana, ma non con lo stesso mittente. Tuttavia, non era permesso possedere o leggere giornali, cantare o avere carte da gioco. Durante i colloqui con i parenti, che avvenivano tra reti metalliche distanziate, era previsto l'ascolto da parte delle guardie. Le punizioni andavano dalla semplice ammonizione del direttore alla cella d'isolamento, ed erano previste sanzioni come il divieto di fumare, di scrivere, di lavarsi, di radersi per alcuni giorni, l'interruzione dei colloqui, la sottrazione del pagliericcio, fino al letto di contenzione (non solo nei manicomi), la camicia di forza e la cella "imbottita". Molte infrazioni avevano risvolti "penali" ossia facevano scattare denunce e condanne che allungavano la pena.


Ma il beneficio principale in un sistema penitenziairio così aspro, stava nella possibilità di accedere al lavoro in carcere, oppure, nell'asseganzione a un carcere aperto. Il detenuto nella sua permanenza in carcere, possedeva una "cartella biografica" nella quale si annotava il comportamento all'interno del carcere, ma anche i reati commessi dai suoi familiari e sopratutto le idee politiche di ogni membro della famiglia. Nel 1939 fu approvato il Tribunale Dei Minori e le case di rieducazione per i minorenni, ancora oggi in funzione. Nel secondo dopoguerra, le carceri rimasero invariate e solo intorno al 1960 ci furono dei cambiamenti all'interno delle ultime.

mercoledì 24 febbraio 2016

Rieducare per Poter Vivere



Salvaguardare la pace e la sicurezza sociale. Con questi concetti ha inizio il problema penitenziario. Isolare chi ha violato l’ordine costituito e rinchiudere il soggetto indicato in apposite strutture,le carceri. Carceri però troppe volte intese solo ed esclusivamente come edifici in cui “sbattere” dentro il colpevole. Per tanto e troppo tempo questa è stata l’unica funzione principale del penitenziario. E purtroppo ancora oggi assistiamo nel nostro Paese a questo concetto esclusivo di detenzione basato solo sulla pena. Si va contro persino la Costituzione che nell'art. 27 del codice penale sottolinea che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ecco quindi che chi esce dal carcere,esce con uno spirito vendicativo nei confronti della società perché non si è agito sul recupero soprattutto psicologico del detenuto. E la società risente di questa mala gestione delle carceri.

Nell’antica Roma si distinguevano pene di carattere privatistico che culminavano in processi civili e pene di carattere pubblicistico che riguardavano tutta la società. Le pene di quest’ultimo tipo sono cambiate con gli anni,si andava dalla più grave che era la pena capitale,ma c’era anche l’esilio,la fustigazione,le pene pecuniarie e i lavori forzati. E come notiamo sono tutte pene atte alla punizione,senza possibilità e volontà di recupero del condannato. Un cambiamento si ha nel XVI secolo quando in Inghilterra si comincia a capire che la funzione di un carcere non è solo quella punitiva. Ladri,prostitute,vagabondi vengono raccolti nel palazzo concesso dal sovrano e obbligati a riformarsi attraverso il lavoro e la disciplina.
Nel corso del tempo e fino ai nostri giorni il sistema carcere per noi è peggiorato. Oltre a non rieducare il detenuto,da una visione ancora più negativa dei suoi “pazienti”. Li vuole isolare,sia mentalmente che fisicamente. Per il carcere sono elementi improduttivi per la società e quindi bisogna tenerli lontano dal progresso della società. Spesso si mette a rischio la vita o l'incolumità dei detenuti nonostante ci siano circolari ministeriali che indicano di ricorrere a trattamenti multi disciplinari e multi professionali. La sorveglianza verte soprattutto sulle condizioni sanitarie. C'è un numero altissimo di detenuti affetti da gravissimi disagi psichici che favoriscono l'emergere di un comportamento aggressivo che costringe alla custodia detentiva.

In ogni caso la rieducazione di un detenuto deve tendere alla creazione di particolari motivazioni che spingano ad un comportamento corretto facendo però leva sulla responsabilità delle azioni del detenuto e alle conseguenze di ogni sua azione. Ecco che si inserisce quindi il concetto di premialità progressiva,cioè attenuazione della pena qualora si riscontri un'acquisizione di abitudini sociali che permettano l'interazione in un ambiente differente da quello carcerario.  Ma molto articolato è l'ordinamento penitenziale italiano a riguardo. L'art.54 prevede che se il condannato risulti partecipe all'opera di rieducazione,per esempio un tossicodipendente,gli può essere concesso un periodo di liberazione anticipata con la clausola che se durante questo periodo il condannato dimostri invece tutto il contrario allora c'è l'immediata cessazione del programma di recupero.

Negli ultimi anni,anche soprattutto al problema del sovraffollamento delle carceri,si è puntato molto alla forma di detenzione domiciliare,ovviamente il tutto assistito e controllato rigidamente. E sempre più ovvio questo caso si applica a detenuti che non hanno commesso gravi reati e che sono già predisposti per un reinserimento immediato nella società. Purtroppo non sempre queste iniziative da parte del sistema carcerario sono applicate "secondo copione". Nel nostro Paese spesso non c'è il senso della certezza della pena e non abbiamo una giustizia rapida. Sia ha differenza troppo marcata tra l'interno e l'esterno della struttura carceraria. Assistiamo alla completa ghettizzazione dei detenuti. E le conseguenze sono note. I numeri purtroppo dicono sempre la verità e si calcola che dal 2000 ad oggi sono circa 1000 i detenuti che si sono tolti la vita. Se poi pensiamo che tanti clandestini che arrivano in Italia vengono arrestati e subito rilasciati arriviamo da soli a capire che qualcosa nel nostro sistema carcerario non va. Il ministero dell'interno propone la costruzione di nuove carceri ma non riesce a capire che il progetto vero e proprio dovrebbe andare nella direzione della rieducazione. E il problema in Italia è lo scarso numero di personale che dovrebbe compiere questa rieducazione. Addirittura si arriva in certe strutture ad avere un solo agente penitenziario ogni 150 detenuti il che presuppone che un problema cosi grande si può solo contenere e risulta impossibile un'operazione di recupero.

Purtroppo i problemi ci sono,ne siamo consapevoli. Ma siamo anche certi che non sempre i problemi si vogliono risolvere,anzi molte volte creare problemi favorisce la lotta tra i vari partiti politici per cercare di accaparrarsi il diritto di risoluzione del problema poi invece troppe volte lasciato senza soluzione. Noi siamo dalla parte di ogni tipo di progetto di recupero del detenuto purchè si segua un protocollo ben definito e dettagliato. Il concetto del "chi sbaglia paga" vale sempre. Soprattutto in casi particolari possiamo anche non accettare altre strade. Ci riteniamo persone che non si pentono di quello che scrivono e che fanno assumendoci ogni responsabilità perchè non abbiamo una maschera e quindi siamo sinceri. Siamo però pronti a poter dare una alternativa valida alla punizione carceraria vera e propria per alcuni reati, per i quali vale il concetto: rieducare per poter vivere!







sabato 20 febbraio 2016

Le misure alternative alla detenzione

Da diversi anni ormai grava sull’Italia un problema che molto spesso non riceve le dovute attenzioni, probabilmente perché per molti di noi la faccenda non rientra tra le questioni più impellenti da risolvere, non ci sentiamo direttamente toccati dal problema, eppure ci sono molti individui che scontano questa situazione e ne subiscono i conseguenti disagi: stiamo parlando del sovraffollamento delle carceri.
Troppi detenuti e troppi pochi posti nelle strutture carcerarie, quello che ci si chiede continuamente è quali possano essere le soluzioni a questi problemi, e una delle possibilità che da sempre ha ricevuto svariati consensi, presentandosi come la scelta più conveniente sia a livello umano che a livello pratico, è quella della rieducazione tramite i servizi sociali. In questo modo si cerca di facilitare il reinserimento del condannato nella società civile sottraendolo all'ambiente carcerario.

A tal proposito andiamo a fare riferimento alla legge n.354 del 26 luglio 1975, tramite la quale l’Ordinamento Penitenziario ha introdotto alcune modalità alternative di esecuzione delle condanne rispetto alla tradizionale reclusione in carcere. Riportiamo qui di seguito un estratto:

Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanita' e deve assicurare il rispetto della dignita' della persona. Il trattamento e' improntato ad assoluta imparzialita', senza discriminazioni in ordine a nazionalita', razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le
esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabilia fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loronome.Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato
al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.
Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento e' attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.


Nella parte conclusiva viene posto l’accento proprio sull’aspetto al quale abbiamo pocanzi accennato, ovvero la possibilità per molti detenuti di riabilitarsi nella società con la pratica di lavori utili all’intera comunità. E’ ovvio che questa possibilità non può essere applicata a chiunque indistintamente, come dice il testo stesso della legge bisogna attuare un criterio di selezione che individui le persone idonee e predisposte a poter intraprendere un percorso di questo genere.

Vi possono accedere i detenuti che devono scontare un residuo di pena nei limiti fissati dalla legge: fino a tre anni o fino a sei nel caso di problemi di tossicodipendenza o dipendenza da alcol. I criteri di ammissibilità tengono conto inoltre di determinate condizioni soggettive (età, stato di salute, stato di gravidanza, presenza di figli con età massima di dieci anni). Se la persona rientra nei parametri richiesti viene presa in carico dall’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, che ha il compito di assistere e sostenere i condannati in libertà vigilata o coloro che siano stati ammessi a queste misure alternative. A decidere o meno la concessione di queste misure è il Tribunale di Sorveglianza sulla base di un’inchiesta del Centro di servizio sociale a cui il condannato deve essere affidato. Con un’ordinanza il Tribunale di Sorveglianza stabilisce anche le regole che il condannato dovrà seguire sul lavoro, sul luogo in cui dovrà abitare, sui suoi rapporti con il Centro di Servizio Sociale e sulla sua libertà di movimento.

Gli obblighi  possono prevedere anche il divieto di frequentare determinati posti, di svolgere alcune attività o di avere rapporti personali che possano portare «al compimento di altri reati». L’affidamento può essere revocato «se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova». Se il condannato invece rispetta l’ordinanza, per il periodo che corrisponde alla condanna da scontare, la pena viene considerata estinta.

Abbiamo appena visto quelli che sono i meccanismi e le dinamiche che permettono l’attuazione di questa forma di condanna propositiva e abbiamo soprattutto constatato l’effettiva possibilità di scontare una condanna tramite una forma molto più produttiva della semplice detenzione. La possibilità di scontare una pena tramite i servizi sociali è una realtà quindi assolutamente attuabile, quello su cui vogliamo porre l’accento è però la difficoltà con cui questa misura fatichi ad essere adottata. Non è una novità che quella italiana sia una giustizia lenta e farraginosa. Una magistratura che predilige le manette e la punizione alla rieducazione, una magistratura che spesso sbaglia e che nel dubbio preferisce risparmiare tempo e chiudere dietro le sbarre piuttosto che considerare altre soluzioni che richiedono un minimo sforzo in più.

Il problema a monte è sempre lo stesso, la mentalità con cui vengono affrontati i problemi, l’approccio sbagliato che spinge a cercare sempre la soluzione più veloce e apparentemente anche più economica; ma a lungo andare ci si rende conto di come queste misure quantomeno discutibili non siano altro che atteggiamenti di pura pigrizia e menefreghismo da parte di certi organi governativi, gli stessi organi che risultano essere lo specchio di una società fatta di individui sempre più indifferenti ai problemi del prossimo e indirizzati a risolvere solo le questioni che rientrano negli interessi personali e privati, senza preoccuparsi delle conseguenze che possono derivare da questo tipo di atteggiamenti e di scelte.

giovedì 18 febbraio 2016

Rieducazione Carceraria

Analizzare il problema del sistema carcerario in maniera diacronica, scegliendo dunque di seguirne l’evoluzione attraverso il tempo, può sembrare un’impresa ardua; concentrare le nostre ricerche su un determinato aspetto, fin troppo spesso trascurato, quale la funzione rieducativa della detenzione, potrebbe sfiorare l’impossibile, se non fosse estremamente importante una riflessione in merito. Ciò che è legittimo domandarsi, al fine della nostra indagine, è quanto il carcere possa effettivamente essere anche il luogo designato al recupero dei valori della convivenza civile. 


L’esatto momento in cui l’uomo decise di allontanare volontariamente dalla società colui che avesse in qualche determinato modo violato l’ordine costituito, relegandolo in strutture ad hoc, nascevano all’unisono sia il concetto di carcere sia il problema penitenziario. Parlando al passato remoto, la pena del singolo individuo veniva intesa come una vendetta sociale, mirata ad annullare il reo più che a rieducarlo. Il concetto di pena, così come viene percepito ai giorni d’oggi, è una creazione relativamente recente: ciò che nei secoli scorsi veniva difatti ignorato non era il carcere, luogo ed istituzione, quanto l’internamento sinonimo di privazione di libertà. Nel Medioevo la pena consisteva nel pagamento di una somma di denaro; in mancanza di ciò, al colpevole venivano inflitte punizioni corporali. Il carcere rappresenta dunque l'ultima alternativa possibile, una pena sostitutiva alla pena pecuniaria. Sino al quindicesimo secolo le pene comunemente applicate sono, oltre alla pena pecuniaria, l’esilio, la mutilazione, il marchio a fuoco, la flagellazione, la gogna, la morte; i metodi punitivi cominciano a subire un mutamento graduale ma profondo verso la fine del sedicesimo secolo, quando si comincia a valutare la possibilità di sfruttare il lavoro dei detenuti. Vengono introdotti la servitù sulle galere, la deportazione e la pena del lavoro forzato. 


Di tutte le motivazioni che contribuirono a rafforzare l’idea del carcere come pena, la più importante fu senz’altro quella del profitto, sia nel senso più limitato di rendere produttiva la stessa istituzione carceraria, che in quello generale di trasformare l’intero sistema penale in una parte del programma mercantilistico dello Stato. Se già nell’epoca del mercantilismo sono gettate le basi per la costruzione di un nuovo sistema basato sulla detenzione, è con i riformatori illuministi che la privazione di libertà e l’istituzione carceraria ad essa correlata assumono il ruolo di sanzione penale dominante. Durante il XIX secolo invece, viene meno la fiducia incondizionata nella capacità del carcere di raggiungere la rieducazione del condannato solo in virtù del modello di organizzazione imposto dall’amministrazione penitenziaria. Per incidere sull’individuo non basta inserirlo in una struttura pianificata, che realizzi in maniera tangibile l’ordine e la disciplina nella realtà degli istituti penitenziari, ma è necessario, piuttosto, valutare gli elementi più significativi della sua personalità, affinché il carcere possa piegarne gli impulsi negativi che lo hanno portato a commettere il reato. In questa prospettiva anche i sistemi filadelfiano e auburniano vengono reinterpretati come tecniche di trattamento individualizzato. La vera rivoluzione di pensiero sta nel fatto che il carcere non è più il luogo che rieduca ma il luogo dove si rieduca.

Con la Scuola Positivista si impone in Italia ed in Europa la convinzione che la pena debba perseguire una funzione rieducativa o di prevenzione speciale dato il suo compito di modificare l'atteggiamento di chi si è reso responsabile di un reato, per poterne favorire nuovamente l'ingresso in una società di uomini liberi. 


Questa presa di coscienza, ad oggi, tra interventi legislativi, riforme al regolamento carcerario e passaggi amministrativi, continua però ad esser costantemente minata da una serie di problemi ed interrogativi ai quali sembra complicato trovare una risposta. Molti sono difatti gli ostacoli che si frappongono alla possibilità di svolgere un trattamento idoneo, che potrebbero però essere rimossi se si attuasse una politica penitenziaria più attenta all’obiettivo della rieducazione. Prendiamo in esame la situazione attuale all'interno delle carceri italiane; è un dato conclamato e sconfortante quello che si palesa dinanzi ai nostri occhi: soltanto un numero circoscritto di detenuti è messo di fatto in condizione di svolgere un'attività rieducativa all'interno o all'esterno del carcere stesso. Tutto ciò per la mancanza di presupposti organizzativi e strutturali che possano favorire sia l'addestramento al lavoro sia l'istruzione. Affinché l’opera di rieducazione possa ottenere un qualche successo, sarebbe fondamentale poi che il trattamento fosse in grado di incidere in profondità sul profilo psicologico del reo. 

Altro ulteriore impedimento riguarda il problema del sovraffollamento carcerario, spesso causato da un'elevata percentuale di stranieri: il progressivo aumento dei detenuti determina una netta diminuzione delle opportunità rieducative che ciascun carcere può offrire, dal momento che si limitano notevolmente le possibilità di accesso agli spazi comuni e alle altre offerte trattamentali. 

Le attuali condizioni degli istituti penitenziari sono davvero drammatiche sia per carenze strutturali sia per disorganizzazione logistica, alle quali va aggiunta la mancanza di persone qualificate che possano svolgere sapientemente, in quest'ambito, il proprio dovere. A fronte di una situazione d'emergenza che ormai si protrae nel nostro Paese da diversi decenni, si dovrebbero pianificare soluzioni concrete e definitive, preservando e non abbandonando idee e proposte rieducative, in grado di svolgere importanti azioni costruttive ed innovatrici.

sabato 13 febbraio 2016

I numeri allarmanti del sistema penitenziario italiano

La popolazione detenuta in Italia inizia infatti ad aumentare in maniera incontrollata a partire dai primi anni '90 del secolo scorso quando, a seguito dalla riforma costituzionale del 1992, di fatto è divenuto pressoché eccezionale l'utilizzo del principale strumento attraverso il quale, sino ad allora, era stato amministrato il sovraffollamento carcerario: i provvedimenti di amnistia e indulto. A partire dal 1991 la popolazione detenuta in Italia aumenta a ritmi sempre più incalzanti, con l'unica drastica eccezione del 2006, anno di approvazione dell'ultimo provvedimento di indulto. Durante questa corsa al rialzo, la cifra record di presenze nelle carceri verrà raggiunta nel novembre del 2010, quando il totale dei detenuti presenti sfiorerà le 70.000 unità.

Contemporaneamente, in questi anni si amplia l'ambito di applicazione della cosiddetta “area penale esterna”, che comprende il totale dei soggetti sottoposti a quelle forme di esecuzione della pena alternative al carcere previste dall'ordinamento. Tale progressivo ampliamento dell'ambito di applicazione del carcere, e di quello delle misure alternative, mostra la dimensione del processo di espansione dell'area del controllo penale che raggiunge i suoi massimi livelli proprio negli anni 2000.
Come noto, tale processo di espansione non si giustifica con un parallelo incremento degli indici di delittuosità. Gli omicidi, in particolare, nel nostro paese sono in costante diminuzione da più di 20 anni, mentre reati quali rapine e furti hanno avuto nei medesimi anni un andamento piuttosto altalenante, senza che tuttavia via sia stato un incremento del fenomeno se paragonato ai primi anni '90. Piuttosto, le cause dell'aumento del numero di detenuti vanno individuate in precise, e note, scelte di politica criminale.

Se, infatti, tutti gli anni '90 e i primi anni 2000 ci avevano abituati ad una coniugazione del termine emergenza con l'allarme criminalità, oggi, ed in particolare nell'ultimo anno e mezzo, l'emergenza è divenuta il sovraffollamento delle carceri

Come noto, il primo tentativo recente di porre un limite all'incremento della popolazione detenuta si deve alla L. 199/2010, nota come “Legge Alfano” che, di fronte ad una popolazione detenuta che si avvicinava alla soglia delle 70.000 presenze, tentò di utilizzare lo strumento della detenzione domiciliare come via di uscita anticipata dal carcere per i condannati ad una pena, anche residua, entro i 12 mesi. La popolazione detenuta, seppur lievemente, iniziò a scendere. Oggi, infatti, i beneficiari della norma – con un limite di pena, anche residua, nel frattempo elevato a 18 mesi - scarcerati sono oltre 13.000, con un chiaro effetto “tampone”, deflattivo sui livelli generali di carcerazione.


Altro aspetto è quello della custodia cautelare in carcere. I dati raccolti dal Consiglio d'Europa da diversi anni mostrano come l'Italia sia maglia nera relativamente all'eccessivo utilizzo di tale strumento. In questi ultimi anni la percentuale di detenuti non condannati a titolo definitivo è tuttavia costantemente diminuita.

Con una sentenza del 2013 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per trattamenti inumani e degradanti dei detenuti nelle carceri del nostro territorio. Non a caso, infatti, sono numeri e dati da incubo quelli che affligono il nostro sistema penitenziario. Numeri e dati però ai quali in pochi sono attenti e che a quanto pare non sono oggetto nè di tentativi di riforma radicale, nè di interesse mediatico.

Nel 2010 il record di presenze nelle carceri italiane: ben 70000 con un tasso di sovraffollamento più alto del 150% (quindi 150 detenuti nello spazio che sarebbe destinato a 100). Poi leggeri ma costanti cali: nel 2012 ci sono state 66000 presenze (sovraffollamento al 140,42%), nel 2013 non oltre le 62500 presenze (sovraffollamento al 131,08%), nel 2014 si è giunti a 60200 presenze (sovraffollamento al 124,61%)e nel 2015 "solo" 53000 presenze (ben 2.489 in più rispetto alla capienza regolamentare di circa 9 metri quadrati a persona). Nell'anno appena passato su 53000 presenze, 2.122 sono donne e 17.035 stranieri.


Ma c'è di più: il 25% della popolazione detenuta sconta una condanna inferiore ai tre anni di detenzione (37% per gli stranieri), il 5% inferiore all'anno di condanna (8% per gli stranieri) e sono ben 8.301, ovvero il 16% del totale della popolazione carceraria, il numero di reclusi ancora in attesa di primo giudizio.

Ad un mese dalla fine dell’anno (quindi fine Novembre 2015) si sono contati 93 decessi in carcere, di cui 50 per suicidio, uno per sciopero della fame, uno per overdose , uno per omicidio, 31 per cause ancora da accertare e 9 per malattia. A questi numeri si devono poi aggiungere altri quattro decessi, di cui 3 per suicidio, avvenuti nelle camere di sicurezza: si tratta di tre uomini e una donna stranieri di età variabile tra i 26 e 31 anni.

 L’età media dei detenuti deceduti è di poco inferiore ai 40 anni, così come quella dei soli suicidi. Il più giovane a morire, fino ad ora, aveva 19 anni, il più anziano che si è suicidato aveva 71 anni ed era recluso a Rebibbia. Inoltre solo nel 2012 si sono tolti la vita 8 appartenenti al corpo della Polizia penitenziaria, lo stesso numero nell’anno precedente, 5 nel 2010, 6 nel 2009 e 7 nel 2008 e 2007.
Tra i reati maggiormente colpiti ci sono: i reati contro il patrimonio (30.042), seguito da quelli contro la persona (21.562), per droga (18.312), per armi (10.088), associazione di stampo mafioso-416bis (7.023), reati contro la pubblica amministrazione (6.872).

Pochissime sono ancora le misure alternative adottate dall'Italia: In totale al 31 luglio 2015 sono 33.309 (nel 2014 erano 32.206), di cui 12.793 in affidamento in prova al servizio sociale, 723 in semilibertà, 9.936 ai domiciliari, 5.990 ai lavori di pubblica utilità, 3.673 in libertà vigilata, 189 in libertà controllata e 5 in semidetenzione.


Dall'ultima condanna del Consiglio d'Europa, datata aprile 2014, l'Italia qualche timido passo in avanti lo ha dunque fatto ma i numeri, però, restano ancora pericolosamente alti e  Strasburgo è sempre in agguato. Considerate che nel 2012 peggio del nostro Paese aveva fatto solo la Serbia.
Come non citare poi, i numerosi casi di truffa che ogni giorno devono subire i carcerati, ai quali, quotidianamente appunto, viene applicato un prezzo esagerato per alcuni prodotti della loro spesa giornaliera privata (aggiuntiva al carrello base statale con un valore di circa € 3,00 al giorno). Tutto in uno strano e dannoso silenzio. Tanto le cooperative che hanno vinto l'appalto non hanno concorrenza e i carcerati non hanno alternative.  Tanto chi si lamenta in cella, non può essere ascoltato. Solo per citare qualche esempio: caffè Lavazza (qualità rossa) a 3.39 euro, 250 grammi di burro a 2,55 euro, una confezione monodose (50 grammi) di marmellata a 70 centesimi, olio di oliva (non extravergine) a 5,50 euro, un chilo di biscotti a 4,15 euro, scatola di tonno Rio mare da 80 grammi a 1,05 euro, Scottex (4 rotoli) a 2,39 euro.

Ecco, dunque, che per presentare il tema che affronteremo in questo bimestre, cioè il sistema penitenziario italiano e le misure alternative alla detenzione, vi abbiamo voluto dare qualche dato chiarificatore per presentarvi la drammaticità del tema. Leggete attentamente e con la relativa calma questi numeri e da soli arriverete alla conclusione che urge una riforma statale sistemica e normativa. Chissà se qualche partito politico vorrà un giorno "sporcarsi l'immagine" e parlare di questa tematica. Chissà se lo Stato un giorno riuscirà a capire che la funzione della detenzione è si punitiva ma anche rieducativa e che magari integrando di nuovo il detenuto nella società attraverso il lavoro e l'impegno civile sarebbe proprio la collettività a trarne il vantaggio principale. Intanto, ne parliamo noi...