martedì 19 febbraio 2013

La strage del Connecticut e i proiettili della solitudine

All'indomani dell'ennesima strage targata USA abbiamo assistito all'immancabile convivio della chiacchiera senza ritegno, ai rivoltanti cenacoli degli avvoltoi mediatici, sempre pronti a speculare sulle disgrazie di questo mondo al capolinea. Telegiornali, giornali, radio, riviste, talk show: tutti uniti, anche nei momenti più grigi, sotto l'egida della banalità, della mediocrità e del luogo comune; un'onda poderosa, questa della "tele-chiacchiera ripetitiva" che, questa volta, ha investito uno dei temi più cari agli opinionisti, alle casalinghe attempate e ai giornalisti d'assalto: il mercato delle armi negli USA.

"E' ora di smetterla con le armi facili!", questo il grido di indignazione lanciato da chi è convinto che l'ultimo dei tanti bagni di sangue sia nato dalle armerie troppo diffuse. C'è chi poi sceglie di soffermarsi su un'analisi psicologica e sociologica delle cause che spingono determinati soggetti a compiere atti simili, ed ecco che vengono tirati in ballo i videogiochi troppo violenti, le situazioni familiari difficili, la solitudine in cui vengono lasciate queste persone e chi più ne ha più ne metta. In tutto questo, nessuno, come al solito, cerca di esaminare in modo più sottile questi fenomeni, di capirne il contorno aberrante che li circonda.

La mattanza cui abbiamo assistito rappresenta nient'altro che l'espressione più efferata ed estrema dell'alienazione dell'uomo moderno e della sua realtà, fatta di individualismo e plastica, che fonda la sua disperazione su un materialismo esasperato, sul distacco dai ritmi e dalle energie della natura, sulla corsa al consumo.

Ma per spiegare meglio questo concetto occorre porre l'attenzione sull'elemento fondativo e caratterizzante di questa condizione, ossia la solitudine in cui l'uomo è immerso.
Nei recenti commenti circa la strage del Connecticut spesso abbiamo sentito dire che "l'emarginazione ha spinto il ragazzo a compiere il gesto folle":mai affermazione fu più vera, ma sarebbe il caso di riflettere su ciò che oggi intendiamo con "emarginazione". Chi oggi può essere definito un "emarginato"? Forse solo i clochard che troviamo ai lati delle strade? O magari gli individui affetti da problemi mentali quali l'autismo o la schizofrenia? Se ci riflettiamo bene possiamo evidenziare quanto, in realtà, l'emarginazione, in diversi gradi ovviamente, sia invece presente in ognuno di noi. Ogni nostro gesto quotidiano, ogni nostra scelta, ogni nostro impegno scolastico, lavorativo e persino affettivo è vissuto in funzione di un individualismo opprimente, che ha come conseguenza diretta la netta sensazione di "inspiegabile" solitudine cui ogni uomo contemporaneo è soggetto.

Lavori che non ci soddisfano, relazioni sentimentali vissute solo per spinte di benessere personale, studi fatti solo per assicurarsi la più accogliente e rassicurante prospettiva di vita: quella borghese. Tutto questo è l'effetto e, al contempo, la causa dell'atomizzazione dell'individuo e della comunità, che porta insoddisfazione, invidia, frustrazione, e nell'ultimo stadio, emarginazione.
In una spirale diabolica, che trae le sue origini nelle teorie materialiste e anti-spiritualiste del settecento e dell'ottocento ma della quale non si scorge la fine, il grande capitale si eleva a figura di fautore ed avvoltoio delle debolezze umane. La massa soverchiante e scoordinata di informazioni dei social-network e dei media ci circonda in una polvere di superficialità, il consumismo ci spinge verso i "pozzi senza fondo" dell'effimero, ed è a quel punto che si manifestano i piccoli grandi orrori della modernità: dalle file giorno e notte davanti gli Apple-Store alle folli manie planetarie, fino ad arrivare, in ultimo stadio, alla follia omicida e stragista.

Fatta questa doverosa constatazione, possiamo capire facilmente che il problema di tutta la vicenda della strage del Connecticut e delle stragi americane in genere, non sia di natura esteriore (e cioé dovuto alla facile circolazione delle armi), bensì di natura interiore (il modo in cui l'uomo vive e vede la violenza oggi). Nel corso della storia infatti, dall'antichità fino quasi al ventesimo secolo, la vita dell'uomo era legata in modo strettissimo alla violenza, alle armi, alla forza bruta, eppure non abbiamo notizia di stragi immotivate come quelle che vediamo nei giorni nostri. Ciò è dovuto fondamentalmente al fatto che nelle società Tradizionali l'uomo, pur vivendo a stretto contatto con queste forze dirompenti, aveva imparato a rispettarle e a dominarle, aveva compreso l'alto messaggio spirituale che la guerra, la violenza, le armi e, in ultima istanza, la morte portano con sé. Oggi invece, sconvolto dalla solitudine e dall'alienazione, l'uomo non è più in grado di disciplinare la spinta di queste ataviche forze e di orientarle in funzione dell'edificazione della propria interiorità.

Cercare in tutti i modi di disconoscere la parte violenta e belluina dell'uomo è una caratteristica tipica della pigra e perbenista morale borghese. E' una visione parziale e fallace, che va assolutamente smentita, proprio perché non si elimina il male ignorandolo, ma gli si riesce a dare un senso nel momento in cui esso viene contestualizzato nella dualità che governa tutto l'agire dell'universo. Per ogni male c'è un bene che lo controbilancia, per ogni pulsione violenta e istintiva c'è una tendenza rettificatrice e disciplinante che deve sorgere. Impariamo a conoscere la nostra parte violenta, riconosciamo la nostra parte meschina e irrazionale, perché è solo guardandola in faccia e accettandola serenamente che saremo in grado di dominarla e renderla positiva per noi e per la società che ci circonda.

 

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