giovedì 18 febbraio 2016

Rieducazione Carceraria

Analizzare il problema del sistema carcerario in maniera diacronica, scegliendo dunque di seguirne l’evoluzione attraverso il tempo, può sembrare un’impresa ardua; concentrare le nostre ricerche su un determinato aspetto, fin troppo spesso trascurato, quale la funzione rieducativa della detenzione, potrebbe sfiorare l’impossibile, se non fosse estremamente importante una riflessione in merito. Ciò che è legittimo domandarsi, al fine della nostra indagine, è quanto il carcere possa effettivamente essere anche il luogo designato al recupero dei valori della convivenza civile. 


L’esatto momento in cui l’uomo decise di allontanare volontariamente dalla società colui che avesse in qualche determinato modo violato l’ordine costituito, relegandolo in strutture ad hoc, nascevano all’unisono sia il concetto di carcere sia il problema penitenziario. Parlando al passato remoto, la pena del singolo individuo veniva intesa come una vendetta sociale, mirata ad annullare il reo più che a rieducarlo. Il concetto di pena, così come viene percepito ai giorni d’oggi, è una creazione relativamente recente: ciò che nei secoli scorsi veniva difatti ignorato non era il carcere, luogo ed istituzione, quanto l’internamento sinonimo di privazione di libertà. Nel Medioevo la pena consisteva nel pagamento di una somma di denaro; in mancanza di ciò, al colpevole venivano inflitte punizioni corporali. Il carcere rappresenta dunque l'ultima alternativa possibile, una pena sostitutiva alla pena pecuniaria. Sino al quindicesimo secolo le pene comunemente applicate sono, oltre alla pena pecuniaria, l’esilio, la mutilazione, il marchio a fuoco, la flagellazione, la gogna, la morte; i metodi punitivi cominciano a subire un mutamento graduale ma profondo verso la fine del sedicesimo secolo, quando si comincia a valutare la possibilità di sfruttare il lavoro dei detenuti. Vengono introdotti la servitù sulle galere, la deportazione e la pena del lavoro forzato. 


Di tutte le motivazioni che contribuirono a rafforzare l’idea del carcere come pena, la più importante fu senz’altro quella del profitto, sia nel senso più limitato di rendere produttiva la stessa istituzione carceraria, che in quello generale di trasformare l’intero sistema penale in una parte del programma mercantilistico dello Stato. Se già nell’epoca del mercantilismo sono gettate le basi per la costruzione di un nuovo sistema basato sulla detenzione, è con i riformatori illuministi che la privazione di libertà e l’istituzione carceraria ad essa correlata assumono il ruolo di sanzione penale dominante. Durante il XIX secolo invece, viene meno la fiducia incondizionata nella capacità del carcere di raggiungere la rieducazione del condannato solo in virtù del modello di organizzazione imposto dall’amministrazione penitenziaria. Per incidere sull’individuo non basta inserirlo in una struttura pianificata, che realizzi in maniera tangibile l’ordine e la disciplina nella realtà degli istituti penitenziari, ma è necessario, piuttosto, valutare gli elementi più significativi della sua personalità, affinché il carcere possa piegarne gli impulsi negativi che lo hanno portato a commettere il reato. In questa prospettiva anche i sistemi filadelfiano e auburniano vengono reinterpretati come tecniche di trattamento individualizzato. La vera rivoluzione di pensiero sta nel fatto che il carcere non è più il luogo che rieduca ma il luogo dove si rieduca.

Con la Scuola Positivista si impone in Italia ed in Europa la convinzione che la pena debba perseguire una funzione rieducativa o di prevenzione speciale dato il suo compito di modificare l'atteggiamento di chi si è reso responsabile di un reato, per poterne favorire nuovamente l'ingresso in una società di uomini liberi. 


Questa presa di coscienza, ad oggi, tra interventi legislativi, riforme al regolamento carcerario e passaggi amministrativi, continua però ad esser costantemente minata da una serie di problemi ed interrogativi ai quali sembra complicato trovare una risposta. Molti sono difatti gli ostacoli che si frappongono alla possibilità di svolgere un trattamento idoneo, che potrebbero però essere rimossi se si attuasse una politica penitenziaria più attenta all’obiettivo della rieducazione. Prendiamo in esame la situazione attuale all'interno delle carceri italiane; è un dato conclamato e sconfortante quello che si palesa dinanzi ai nostri occhi: soltanto un numero circoscritto di detenuti è messo di fatto in condizione di svolgere un'attività rieducativa all'interno o all'esterno del carcere stesso. Tutto ciò per la mancanza di presupposti organizzativi e strutturali che possano favorire sia l'addestramento al lavoro sia l'istruzione. Affinché l’opera di rieducazione possa ottenere un qualche successo, sarebbe fondamentale poi che il trattamento fosse in grado di incidere in profondità sul profilo psicologico del reo. 

Altro ulteriore impedimento riguarda il problema del sovraffollamento carcerario, spesso causato da un'elevata percentuale di stranieri: il progressivo aumento dei detenuti determina una netta diminuzione delle opportunità rieducative che ciascun carcere può offrire, dal momento che si limitano notevolmente le possibilità di accesso agli spazi comuni e alle altre offerte trattamentali. 

Le attuali condizioni degli istituti penitenziari sono davvero drammatiche sia per carenze strutturali sia per disorganizzazione logistica, alle quali va aggiunta la mancanza di persone qualificate che possano svolgere sapientemente, in quest'ambito, il proprio dovere. A fronte di una situazione d'emergenza che ormai si protrae nel nostro Paese da diversi decenni, si dovrebbero pianificare soluzioni concrete e definitive, preservando e non abbandonando idee e proposte rieducative, in grado di svolgere importanti azioni costruttive ed innovatrici.

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