Analizzare
il problema del sistema carcerario in maniera diacronica, scegliendo dunque di
seguirne l’evoluzione attraverso il tempo, può sembrare un’impresa ardua;
concentrare le nostre ricerche su un determinato aspetto, fin troppo spesso
trascurato, quale la funzione rieducativa della detenzione, potrebbe sfiorare
l’impossibile, se non fosse estremamente importante una riflessione in merito. Ciò
che è legittimo domandarsi, al fine della nostra indagine, è quanto il carcere
possa effettivamente essere anche il luogo designato al recupero dei valori
della convivenza civile.
L’esatto
momento in cui l’uomo decise di allontanare
volontariamente dalla società colui che avesse in qualche determinato modo
violato l’ordine costituito, relegandolo in strutture ad hoc, nascevano
all’unisono sia il concetto di carcere sia il problema penitenziario.
Parlando al passato remoto, la pena del singolo individuo
veniva intesa come una vendetta sociale, mirata ad annullare il reo più
che a
rieducarlo. Il concetto di pena, così come viene percepito ai giorni
d’oggi, è una
creazione relativamente recente: ciò che nei secoli scorsi veniva
difatti
ignorato non era il carcere, luogo ed istituzione, quanto l’internamento
sinonimo di privazione di libertà. Nel Medioevo la pena consisteva nel
pagamento di una somma di denaro; in mancanza di ciò, al colpevole
venivano inflitte punizioni corporali. Il carcere rappresenta dunque
l'ultima alternativa possibile, una pena sostitutiva alla pena
pecuniaria. Sino al quindicesimo secolo le pene comunemente applicate sono, oltre alla pena
pecuniaria, l’esilio, la mutilazione, il marchio a fuoco, la flagellazione, la gogna, la
morte; i metodi punitivi cominciano a subire un mutamento graduale ma profondo verso la
fine del sedicesimo secolo, quando si comincia a valutare la possibilità di sfruttare il
lavoro dei detenuti. Vengono introdotti la servitù sulle galere, la deportazione e la
pena del lavoro forzato.
Di tutte le motivazioni che contribuirono a rafforzare l’idea del carcere come pena, la
più importante fu senz’altro quella del profitto, sia nel senso più limitato di rendere
produttiva la stessa istituzione carceraria, che in quello generale di trasformare
l’intero sistema penale in una parte del programma mercantilistico dello Stato.
Se già nell’epoca del mercantilismo sono gettate le basi per la costruzione di un
nuovo sistema basato sulla detenzione, è con i riformatori illuministi che la
privazione di libertà e l’istituzione carceraria ad essa correlata assumono il ruolo di
sanzione penale dominante. Durante il XIX secolo invece, viene meno la fiducia incondizionata nella capacità del carcere di
raggiungere la rieducazione del condannato solo in virtù del modello di
organizzazione imposto dall’amministrazione penitenziaria. Per incidere
sull’individuo non basta inserirlo in una struttura pianificata, che realizzi in maniera
tangibile l’ordine e la disciplina nella realtà degli istituti penitenziari, ma è
necessario, piuttosto, valutare gli elementi più significativi della sua personalità,
affinché il carcere possa piegarne gli impulsi negativi che lo hanno portato a
commettere il reato. In questa prospettiva anche i sistemi filadelfiano e auburniano
vengono reinterpretati come tecniche di trattamento individualizzato.
La vera rivoluzione di pensiero sta nel fatto che il carcere non è più il luogo che
rieduca ma il luogo dove si rieduca.
Con
la Scuola Positivista si impone in Italia ed in Europa la convinzione
che la pena debba perseguire una funzione rieducativa o di prevenzione
speciale dato il suo compito di modificare l'atteggiamento di chi si è
reso responsabile di un reato, per poterne favorire nuovamente
l'ingresso in una società di uomini liberi.
Questa
presa di coscienza, ad oggi, tra interventi legislativi, riforme al
regolamento carcerario e passaggi amministrativi, continua però ad esser
costantemente minata da una serie di problemi ed interrogativi ai quali
sembra complicato trovare una risposta. Molti sono difatti gli ostacoli che si frappongono alla possibilità di svolgere un trattamento
idoneo, che potrebbero però essere rimossi se si attuasse una politica penitenziaria più
attenta all’obiettivo della rieducazione. Prendiamo
in esame la situazione attuale all'interno delle carceri italiane; è un
dato conclamato e sconfortante quello che si palesa dinanzi ai nostri
occhi: soltanto un numero circoscritto di detenuti è messo di fatto in
condizione di svolgere un'attività rieducativa all'interno o all'esterno
del carcere stesso. Tutto ciò per la mancanza di presupposti
organizzativi e strutturali che possano favorire sia l'addestramento al
lavoro sia l'istruzione. Affinché l’opera di rieducazione possa ottenere un qualche successo, sarebbe
fondamentale poi che il trattamento fosse in grado di incidere in profondità sul
profilo psicologico del reo.
Altro
ulteriore impedimento riguarda il problema del sovraffollamento
carcerario, spesso causato da un'elevata percentuale di stranieri: il
progressivo aumento dei detenuti determina una netta diminuzione delle
opportunità rieducative che ciascun carcere può offrire, dal momento che si
limitano notevolmente le possibilità di accesso agli spazi comuni e alle altre offerte
trattamentali.
Le
attuali condizioni degli istituti penitenziari sono davvero drammatiche
sia per carenze strutturali sia per disorganizzazione logistica, alle
quali va aggiunta la mancanza di persone qualificate che possano
svolgere sapientemente, in quest'ambito, il proprio dovere. A fronte di
una situazione d'emergenza che ormai si protrae nel nostro Paese da
diversi decenni, si dovrebbero pianificare soluzioni concrete e
definitive, preservando e non abbandonando idee e proposte rieducative,
in grado di svolgere importanti azioni costruttive ed innovatrici.
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