C’era una volta l’industria
italiana,o meglio,c’era una volta lo stabilimento che produceva in Italia. Il
periodo della crisi sembra non finire mai e l’industria italiana appare in chiara
difficoltà. Chiudono le diverse filiali presenti sul territorio italiano,e si
trasferiscono oltreconfine;come si suol dire si “delocalizza”. Ma perchè? Come
risposta immediata gli imprenditori affermano che è un modo per abbattere i
costi di produzione,quindi facendo uso di manodopera a basso costo. Ma un altro
motivo è sicuramente che molti Paesi adottano un regime fiscale più conveniente
rispetto all’Italia. Considerando anche leggi meno severe sulla salvaguardia
dell’ambiente e presenza di materie prime nella zona il gioco è fatto.
Purtroppo abbiamo l’altra faccia della medaglia che è molto negativa per la
nostra nazione.
Molti sono gli stabilimenti industriali in Italia,alcuni dei quali sono
prettamente facenti riferimento ad aziende native italiane,mentre altri ancora
sono filiali di aziende straniere che operano sul nostro territorio. Ed è il
caso della Bridgestone,l’azienda giapponese produttrice di pneumatici che sta
vivendo in Italia un periodo negativo causato prevalentemente dalla crisi che
sta attraversando il nostro Paese. Come conseguenza l’azienda ha comunicato di
voler chiudere lo stabilimento italiano di Bari entro il 2014. Viene quindi di
nuovo coinvolto il sud Italia già recentemente tirato in ballo con il caso Ilva
di Taranto. Siamo di nuovo di fronte alla concreta possibilità di svendita di
un’azienda operante nel nostro territorio. Analizzando più in dettaglio la
situazione dello stabilimento di Bari risaltano problematiche legate alla
presenza di amianto e questo si ricollega al nostro discorso iniziale sul
cercare all’estero territori che offrano una maggior sicurezza ambientale con
regole meno ferree. Quindi lo stabilimento di Modugno(Bari) che produce
pneumatici di “bassa gamma”,come si sente spesso,va chiudendo in favore di
stabilimenti che produrrebbero pneumatici di qualità elevata e le solite scuse sono
le poche vendite,la concorrenza e i costi di produzione elevati. Ma la verità è
che si preferisce produrre
all’estero proprio perché il
lavoratore viene pagato una miseria e quindi sfruttato. Ma come sempre i
problemi vanno ricercati in più ambiti e anche il fatto che i sindacati non
sono molto vicini ai veri problemi dei lavoratori facilita questa regressione
industriale italiana. Occorrerebbe la rottura tra sindacati e vecchia politica,
che ancora continua a manipolare le menti degli Italiani. Ci vorrebbe una
decisa presa di posizione a sostegno delle famiglie che rischiano di rimanere
senza lavoro. Addirittura Vendola è riuscito a dire che così non può andare,ma
le sue resteranno solo parole,ora abbiamo un disperato bisogno di fatti. E il
sindaco di Bari come prima mossa ha deciso l’occupazione dello
stabilimento,come dire…chi ben comincia è a metà dell’opera.
Purtroppo il caso Bridgestone
non è l’unico in Italia e l’elenco è lunghissimo. Entrano in gioco le aziende
italiane che quindi sono nate in Italia. C’è l’Omsa,l’azienda che produce
calze,l’azienda della Golden Lady per capirci,che vuole attuare un
licenziamento collettivo e trasferirsi all’estero.
C’è poi la Fiat che vuole andare a
produrre in Serbia,nello stabilimento di Kragujevac dove il salario del singolo operaio
sarebbe molto al di sotto rispetto a quello di un lavoratore torinese.
L’accordo prevede che il Lingotto non debba pagare tasse ne al governo di
Belgrado ne al comune di Kragujevac,ecco trovato il motivo principale per
fuggire dall’Italia…e scusate se è poco!!!
Chiusura di stabilimenti e
prolungamento della cassa di integrazione per il lavoratori del Lingotto sono
inaccettabili. Marchionne purtroppo non esclude la chiusura. Sono
molti i dipendenti a rischio,i settemila di Melfi,i cinquemila di Cassino,i
quasi seimila di Mirafiori e i seimiladuecento della Sevel di Atessa. Numeri
che fanno venire i brividi. E l’apertura dello stabilimento Fiat in Brasile non
prelude a nulla di buono. Una norma del 1980 prevede che le case automobilistiche
che vanno ad investire in Brasile possano accedere a finanziamenti e
agevolazioni fiscali. In pratica le aziende italiane in Brasile riescono a
raggiungere accordi per non pagare
tasse sugli utili almeno per un
certo periodo di anni. E qui qualche sospetto comincia allora a sorgere.
C’è poi la Bialetti ,l’azienda della
moka che si è venduta alla concorrenza turca…bye bye anche alla caffettiera
italiana per eccellenza.
I dati poi parlano chiaro,secondo
l’Istat da marzo 2009 a
marzo 2010,cioè in un anno,367.000 persone che lavoravano in Italia sono
emigrate all’estero. Perfino i call-center,simbolo massimo del lavoro
precario,stanno chiudendo filiali in Italia,si parla qui di 5.000 posti di
lavoro. Tutto ciò è vergognoso.
Come possiamo notare,il
fenomeno della delocalizzazione non è nient’altro che la conseguenza di quel
capitalismo che tanto sta a cuore a molti e che toglie sempre più visibilità
alla nostra nazione in favore di culture tra le più variegate. Perdiamo
l’identità e la maggior parte delle persone non se ne accorge perché vive
questo declino quotidianamente. La nostra produzione italiana va all’estero e
questo purtroppo è un dato di fatto. La rivoluzione che tutti noi sogniamo
raccoglie anche questo aspetto e sicuramente rappresenta un tassello fondamentale
di tutto quel mosaico che stiamo cercando di ricomporre. Chiediamo per questo
la nazionalizzazione delle aziende perché il motore pulsante della nazione è
l’industria,è da qui che può e deve nascere il benessere del Paese.
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