giovedì 16 aprile 2015

I drammatici effetti delle delocalizzazioni

Uno dei fenomeni che ha colpito maggiormente l’Italia negli ultimissimi anni è la cosiddetta “delocalizzazione”, un processo economico che vede l’organizzazione della produzione industriale completamente spostata in regioni o stati diversi da quello originario. In altre parole, ragionando non più sul mercato nazionale ma bensì su scala mondiale, le industrie decidono che alcune funzioni produttive possano essere totalmente delocalizzate in luoghi ritenuti più adatti e dove si possa realizzare quindi un profitto maggiore. La delocalizzazione di tipo internazionale, fra le tante, è la forma di questo fenomeno che altera maggiormente l’economia di un Paese.

I motivi che spingono le industrie a questa sorta di emigrazione sono quasi tutti riconducibili ad un discorso di convenienza economica. L’economicità è il fattore predominante, e lo si finalizza con la ricerca di Paesi in cui ci sia un concreto vantaggio comparato rispetto ad altri, vale a dire un insieme di regole, situazioni, usi e consuetudini che rendono quel tipo di lavoro meglio realizzabile lì piuttosto che altrove. Per esempio, una produzione in cui la parte focale sia costituita dalla mano d'opera rispetto al valore intrinseco delle merci in trasformazione, viene realizzata in un luogo in cui il costo del lavoro sia minimo, può essere il caso per esempio della Cina (uno dei paesi maggiormente in crescita a livello industriale e dove un operaio costa nettamente di meno piuttosto che in Italia). In secondo luogo ricordiamo poi che esistono alcuni incentivi alla delocalizzazione per ragioni di politiche economiche di sviluppo. Si hanno quindi i casi di delocalizzazione regionale, oppure quelli di una delocalizzazione internazionale. Attualmente il paese europeo in cui risulta più conveniente delocalizzare una produzione industriale per esempio è la Bulgaria, questo grazie a normative che annullano l'imposta sul reddito delle società che investono e la presenza di numerose zone franche per l'applicazione dell'IVA.

Come dicevamo all’inizio questo fenomeno di delocalizzazione ha colpito in misura notevole il nostro Paese, la nostra Italia, che tra le tante difficoltà che già affronta, tra la fuga di cervelli, la fuga di moneta, ora si trova ad affrontare anche la fuga delle imprese. Perché anche se la delocalizzazione può comportare aspetti positivi, va sottolineato che altrettanti, se non maggiori, sono gli effetti negative del fenomeno.
Innanzitutto partiamo dal presupposto che Il territorio che perde le produzioni subisce una contrazione massiccia dei lavoratori impiegati in quel settore, in altre parole c’è un notevole aumento della disoccupazione inevitabile.

Altro aspetto di cui tener conto è la perdita di controllo della qualità dei prodotti col conseguente aumento dei controlli qualitativi. Produrre qualcosa all’estero difatti mette in condizioni di essere più attenti alla produzione. Produrre lontano equivale ad avere meno sotto controllo la produzione stessa e quindi a spendere di più nel momento in cui riportiamo il prodotto nel nostro Paese.

Non parliamo poi della questione non meno importante di perdita dell’immagine. Noi italiani sappiamo bene come l’immagine sia importante. L’Italia è da sempre famosa per la buona cucina, non poniamo neanche la questione di cosa scegliereste se vi trovaste di fronte a due alimenti, uno “made in Italy” e un altro uguale prodotto invece all’estero. Spostare la produzione all’estero porta inevitabilmente ad una perdita d’immagine, che equivale quasi ad una perdita di qualità del prodotto stesso.

L’esperienza delle imprese italiane di spostare le proprie attività produttive in altri Stati ha origini lontane. La FIAT fu una delle primissime industrie ad attuare più di 30 anni fa questa nuova misura, ma alle origini il fenomeno riguardava solo le grandi industrie e non comportava grossi rischi per l’aumento della disoccupazione. Il problema di oggi invece è che si ricerca una delocalizzazione sempre più alla riduzione dei costi della manodopera, e soprattutto non si parla più solo delle grandi industrie, ma anche delle medie  e piccole produzioni. La stessa FIAT, che all’epoca utilizzò la delocalizzazione in misure così ridotte, oggi fa fatica ad essere ancora considerata un’impresa italiana.


A conti fatti, pur non essendo degli economisti, ci risulta alquanto improbabile poter guardare a questo fenomeno in maniera esclusivamente positiva. Come si fa a dire che la delocalizzazione è a tutti gli effetti un bene per il nostro Paese se tutti noi sappiamo benissimo quanto la disoccupazione ai giorni nostri abbia raggiunto dei livelli storici. 

Come facciamo noi italiani a dover rinunciare ai nostri marchi, alla nostra identità? La delocalizzazione di oggi, così come viene attuata dal grosso delle imprese italiane, è deleteria, è un rinunciare alla propria identità, è un cedere il proprio “made in Italy” per qualche profitto in più. Questo modo di delocalizzare è una sorta di “ultima spiaggia”, ci viene presentato come un meccanismo economico fondamentale e al passo coi tempi, ma in realtà non è altro che un ripiego per tentare di rimanere a galla in un’Europa che sempre di più ci lascia indietro, abbandonati a noi stessi. E’ veramente questa l’unica via di ripresa per il nostro Bel Paese, svendere i propri marchi storici? Noi speriamo proprio che non sia così. L’identità è forse il bene più importante da preservare per un paese, e nel nostro caso, in un paese come l’Italia, probabilmente vale anche di più, visto che l’orgoglio di essere italiani è una delle poche ricchezze che ci rimane da custodire al giorno d’oggi.

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