Uno
dei fenomeni che ha colpito maggiormente l’Italia negli ultimissimi anni è la
cosiddetta “delocalizzazione”, un processo economico che vede l’organizzazione
della produzione industriale completamente spostata in regioni o stati diversi
da quello originario. In altre parole, ragionando non più sul mercato nazionale
ma bensì su scala mondiale, le industrie decidono che alcune funzioni
produttive possano essere totalmente delocalizzate in luoghi ritenuti più adatti
e dove si possa realizzare quindi un profitto maggiore. La delocalizzazione di
tipo internazionale, fra le tante, è la forma di questo fenomeno che altera
maggiormente l’economia di un Paese.
I
motivi che spingono le industrie a questa sorta di emigrazione sono quasi tutti
riconducibili ad un discorso di convenienza economica. L’economicità è il
fattore predominante, e lo si finalizza con la ricerca di Paesi in cui ci sia
un concreto vantaggio comparato rispetto ad altri, vale a dire un insieme di
regole, situazioni, usi e consuetudini che rendono quel tipo di lavoro meglio
realizzabile lì piuttosto che altrove. Per esempio, una produzione in cui la
parte focale sia costituita dalla mano d'opera rispetto al valore intrinseco
delle merci in trasformazione, viene realizzata in un luogo in cui il costo del
lavoro sia minimo, può essere il caso per esempio della Cina (uno dei paesi
maggiormente in crescita a livello industriale e dove un operaio costa
nettamente di meno piuttosto che in Italia). In secondo luogo ricordiamo poi
che esistono alcuni incentivi alla delocalizzazione per ragioni di politiche
economiche di sviluppo. Si hanno quindi i casi di delocalizzazione regionale,
oppure quelli di una delocalizzazione internazionale. Attualmente il paese
europeo in cui risulta più conveniente delocalizzare una produzione industriale
per esempio è la Bulgaria, questo grazie a normative che annullano l'imposta
sul reddito delle società che investono e la presenza di numerose zone franche
per l'applicazione dell'IVA.
Come
dicevamo all’inizio questo fenomeno di delocalizzazione ha colpito in misura
notevole il nostro Paese, la nostra Italia, che tra le tante difficoltà che già
affronta, tra la fuga di cervelli, la fuga di moneta, ora si trova ad
affrontare anche la fuga delle imprese. Perché anche se la delocalizzazione può
comportare aspetti positivi, va sottolineato che altrettanti, se non maggiori,
sono gli effetti negative del fenomeno.
Innanzitutto
partiamo dal presupposto che Il territorio che perde le produzioni subisce una
contrazione massiccia dei lavoratori impiegati in quel settore, in altre parole
c’è un notevole aumento della disoccupazione inevitabile.
Altro
aspetto di cui tener conto è la perdita di controllo della qualità dei prodotti
col conseguente aumento dei controlli qualitativi. Produrre qualcosa all’estero
difatti mette in condizioni di essere più attenti alla produzione. Produrre
lontano equivale ad avere meno sotto controllo la produzione stessa e quindi a
spendere di più nel momento in cui riportiamo il prodotto nel nostro Paese.
Non
parliamo poi della questione non meno importante di perdita dell’immagine. Noi
italiani sappiamo bene come l’immagine sia importante. L’Italia è da sempre
famosa per la buona cucina, non poniamo neanche la questione di cosa
scegliereste se vi trovaste di fronte a due alimenti, uno “made in Italy” e un
altro uguale prodotto invece all’estero. Spostare la produzione all’estero
porta inevitabilmente ad una perdita d’immagine, che equivale quasi ad una
perdita di qualità del prodotto stesso.
L’esperienza
delle imprese italiane di spostare le proprie attività produttive in altri
Stati ha origini lontane. La FIAT fu una delle primissime industrie ad attuare
più di 30 anni fa questa nuova misura, ma alle origini il fenomeno riguardava
solo le grandi industrie e non comportava grossi rischi per l’aumento della
disoccupazione. Il problema di oggi invece è che si ricerca una
delocalizzazione sempre più alla riduzione dei costi della manodopera, e
soprattutto non si parla più solo delle grandi industrie, ma anche delle
medie e piccole produzioni. La stessa
FIAT, che all’epoca utilizzò la delocalizzazione in misure così ridotte, oggi
fa fatica ad essere ancora considerata un’impresa italiana.
A
conti fatti, pur non essendo degli economisti, ci risulta alquanto improbabile
poter guardare a questo fenomeno in maniera esclusivamente positiva. Come si fa
a dire che la delocalizzazione è a tutti gli effetti un bene per il nostro
Paese se tutti noi sappiamo benissimo quanto la disoccupazione ai giorni nostri
abbia raggiunto dei livelli storici.
Come facciamo noi italiani a dover
rinunciare ai nostri marchi, alla nostra identità? La delocalizzazione di oggi,
così come viene attuata dal grosso delle imprese italiane, è deleteria, è un
rinunciare alla propria identità, è un cedere il proprio “made in Italy” per
qualche profitto in più. Questo modo di delocalizzare è una sorta di “ultima
spiaggia”, ci viene presentato come un meccanismo economico fondamentale e al
passo coi tempi, ma in realtà non è altro che un ripiego per tentare di
rimanere a galla in un’Europa che sempre di più ci lascia indietro, abbandonati
a noi stessi. E’ veramente questa l’unica via di ripresa per il nostro Bel
Paese, svendere i propri marchi storici? Noi speriamo proprio che non sia così.
L’identità è forse il bene più importante da preservare per un paese, e nel
nostro caso, in un paese come l’Italia, probabilmente vale anche di più, visto
che l’orgoglio di essere italiani è una delle poche ricchezze che ci rimane da custodire
al giorno d’oggi.
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