
Attualmente l’Articolo 18 indica i diritti ed i limiti per chi viene licenziato in modo illegittimo e decide di far richiesta al giudice, dopo 180 giorni dal momento in cui viene impugnato, per ottenere indietro il suo impiego o per essere risarcito del danno subito. Per “illegittimità” del licenziamento, lo Statuto dei Lavoratori fa riferimento alla discriminazione, alla mancanza di una giusta causa o a quella di un giustificato motivo. Se il giudice decide di annullare il licenziamento, si verificano delle conseguenze sia per il datore di lavoro sia per il licenziato, a seconda che il licenziamento stesso venga reputato discriminatorio, per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (disciplinare), oppure per motivi economici.
Lo Statuto dei lavoratori inoltre prevede che le tutele per licenziamenti discriminatori ed economici siano applicate solamente nelle aziende che hanno 15 o più dipendenti (più di cinque nel caso di aziende agricole). Nel conteggio sono compresi i lavoratori con un contratto di formazione, di lavoro a tempo indeterminato o parziale, mentre non vengono contati coniuge e parenti del datore entro il secondo grado. Con la riforma Fornero del 2012 sono state introdotte modifiche sia nella procedura che precedeva il licenziamento, riducendo i tempi per rivolgersi al giudice e introducendo una procedura di conciliazione, sia nella giustificazione del licenziamento stesso (discriminatorio, disciplinare, economico). Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio resta valido quanto stabilito dallo Statuto dei Lavoratori ed è stato tolto il parametro del numero dei dipendenti; in caso di licenziamento disciplinare la riforma stabilisce un risarcimento inferiore (passando da 15 a 12 mensilità) e cancella l’obbligo di reintegro; la stessa cosa vale in caso di licenziamento economico.
Un tema delicato ma al tempo stesso di importanza cruciale. E proprio per questo al centro di numerose proposte fatte, e magari ritrattate, dai diversi partiti al governo. Non ultimo l’intervento di Matteo Renzi, il quale, dopo una serie interminabile di indecisioni e ripensamenti, scontentando anche alcuni dei suoi uomini di partito, parlando inizialmente di “benaltrismo” e fuggendo lo stesso Articolo, definito addirittura un “totem”, oggi cambia marcia, invertendo per l’ennesima volta la rotta. Ad ottobre il governo ha difatti ottenuto la fiducia sulla legge delega per il riordino del diritto del lavoro, scongiurando anche una possibile crisi all’interno dello stesso partito, dovuta ai fermenti di alcuni politici totalmente insofferenti nei confronti dell’intera riforma. Oggi, 4 Dicembre 2014, il Jobs Act è ufficialmente legge.
Riforma che tocca peraltro argomenti determinanti, specialmente per i sindacati, i quali però, non hanno pensato due volte a far dietrofront, “accontentandosi” di veder garantita la difesa ai lavoratori a tempo indeterminato, disinteressandosi completamente dei restanti.
Il governo afferma così le reali intenzioni del da farsi: la legge delega si occupa solamente di aspetti ben precisi. Innanzitutto la disciplina dei licenziamenti, favorendo di conseguenza lo stesso licenziamento per motivi economici. Un indennizzo crescente, in base all’anzianità di servizio, è previsto al posto del reintegro. Resta invece intatto il parere del giudice per i rapporti disciplinari e discriminatori. Successivamente, con la revisione dei contratti, attuata in parte anche dalla riforma Fornero, si stabilisce una forma-base per quelli indeterminati, che risultano più convenienti rispetto agli altri. A conti fatti la situazione è ben diversa dato il numero spropositato di rapporti a tempo determinato raggiunto nel corso del 2014.
Nessun commento:
Posta un commento